L'abisso di Lamar (Trento)
Ogni tanto capitano curiose coincidenze che permettono poi di fare esperienze che altrimenti sarebbe stato impossibile anche solo ipotizzare. Difficile spiegarne il motivo, inutile contarvi come si fa su una reazione appositamente prodotta, cercata, voluta: si tratta semplicemente di casualità, unicamente di episodi fortuiti capaci di procurare noie a volte, e altre di favorire amicizie e avventure.
Così quel giorno, un pomeriggio qualsiasi, decisi di condurre Marco e Matteo, promettenti (?) ex-corsisti, all'abisso Mornig, quella che fra le grotte semplici probabilmente è la più interessante della Vena del Gesso. Nella bassa galleria appena prima del cunicolo che porta al bellissimo salto finale incontrammo un gruppo di persone che stavano risalendo; già non è comune incrociare speleologi della zona, figuratevi la sorpresa quando capimmo che i colleghi provenivano da varie regioni italiane.
Ricordo un Perugino che pensava di avermi già conosciuto da qualche parte, e soprattutto Walter Bronzetti, il Trentino col quale mi inchiacchierai. Credo fossero lì per un corso di aggiornamento per istruttori della SNS-CAI, ma ciò che conta è che il simpatico montanaro ci invitò in val Lagarina: il suo gruppo, in collaborazione con altri, aveva deciso di armare l'abisso di Lamar l'inverno successivo (per darvi un'idea dell'operazione, sto parlando di sistemare un migliaio di metri di corda in un "buchetto" la cui sezione pare un fantasioso camino vulcanico, un complicato mondo sviluppato solo in verticale).
Piacevole coincidenza: qualche settimana prima avevo visto l'ingresso del Lamar. Mi ci aveva portato Marcello, vecchio amico trentino conosciuto casualmente a capo Testa, in Sardegna, col quale avevo appena risalito la via "Orizzonti Dolomitici" nella parete sud-ovest del Limarò, al Piccolo Dain, perchè era curioso di sapere se quell'antro notato tempo addietro a pochi chilometri da casa sua avesse una qualche importanza speleologica... accidenti se ne ha, amico mio!!
Un sabato pomeriggio del febbraio dell'anno dopo ci presentiamo su in 3: io, cioè Luca "jnn" di Forlì, poi il fortissimo Luca di Terni e infine il forte Luca di Terni. Contenta Elisa, la guida che Walter ci ha assegnato: in caso di necessità sarebbe bastato gridare un solo nome e ognuno di noi avrebbe eseguito, o ignorato ("boh, si sarà riferita a lui!"), con puntualità. Attorno, ovunque, neve. Il lago superiore di Lamar è ghiacciato, anche quello inferiore, l'aria un po' più che frizzante.
Ci spiegano che là sotto si va con tranquillità unicamente nei mesi invernali poichè nelle altre stagioni è troppa l'acqua che vi entra; direi che ora è chiara l'origine del nome dei pozzi Niagara e Frastuono. Notiamo scherzosamente una delle peculiarità di questo abisso: l'ingresso è 30 metri sopra la superficie di un pittoresco lago alpino, bellissimo, grande, tanto grande da poter riempire interamente la profonda grotta che ha ben pensato di crearglisi sotto. Ci raccontano che sì, è vero, da qualche fessura l'acqua del bacino penetra nella cavità, ma non troppa e sicuramente in minor quantità rispetto a quella che vi si getta provenendo da altre parti... decidiamo di non approfondire l'argomento.
Parte assieme a noi un gruppo di speleologi che Walter guiderà lungo un itinerario differente; ci si incrocierà fra 4 o 5 ore. Dopo uno splendido, lungo meandro quasi orizzontale interrotto da 3 saltini, all'improvviso si apre davanti a noi un baratro: è il pozzo Trieste, immenso, oscuro eppure spettacolare. Ne scendiamo un tratto fino a un terrazzino dal quale parte un traverso inquietante: la parete è verticale, sotto il buio assoluto, le corde spariscono a destra, dopo una curva; capita che manchino gli appoggi e si resti appesi, gli attacchi sono ottimi, ma devo ammettere che in passaggi di questo tipo non mi trovo a mio agio.
Raggiungo Luca in uno dei luoghi naturali più incredibili che mi sia mai capitato di vedere: siamo in piedi sullo stretto davanzale della grande finestra che chiamano Bocca del Pendolo; di qua e di là solo tenebre impenetrabili. In un attimo diventa parzialmente comprensibile il rilievo che Sabrina e Marcello mi avevano spedito a casa e che inutilmente avevo cercato di interpretare: uno stravagante labirinto verticale di enormi pozzi collegati più volte l'uno all'altro difficile da visualizzare, specie in pianta, e impossibile da capire se non dopo esserci stato dentro col disegno stesso in mano.
Spalle al Trieste optiamo per la Direttissima; per calarsi è necessario recuperare con un apposito cordino la corda che arriva dall'alto a centro pozzo, a 3 o 4 metri da noi, e frenando con lo stesso cordino pendolare fin là in mezzo. Scendo. A non so quanto da terra (ma dov'è poi la terra qua... siamo sempre appesi!) mi accorgo che non vi giungerò neppure stavolta: il capo della corda è legato almeno 6 o 7 metri a lato; devo raggiungere un minuscolo terrazzo e posso farlo solamente tirandomi con la fune che un qualche formidabile acrobata ha sistemato a tale scopo tendendola in orizzontale dal punto di arrivo a non so dove (si perde nel buio alla mia sinistra).
Recupero, mi allungo, ci sono: 20 centimetri quadrati su cui appoggiare momentaneamente i piedi. Aldilà c'è un secondo traverso, questo sì da brivido: niente appigli, la parete liscia, scivolosa, si sta a peso morto e delle 2 funi quella più tesa striscia orribilmente in uno spigolo roccioso oltre il quale non so cosa mi aspetta; sotto di me l'oscuro nulla del pozzo Fango (dal rilievo ho scoperto in seguito che stavamo grattugiando la corda ad almeno 50 metri di altezza). Curioso che in una grotta di questo tipo, complessa e tecnica, con armi tanto spettacolari che posso solo immaginare la bravura e il coraggio di chi li ha approntati, si trovi un passaggio pericoloso attrezzato in modo così approssimativo. Dall'altra parte troviamo una cengetta, un semplice traverso, un breve salto e la camera che precede il pozzo Bianco, bellissimo, con la scenografica, candida colata che legittima il suo nome. Seguono una sala col pavimento in forte pendenza, un meandrino (il passaggio si chiama Fricca) e un salto al quale ne seguono due intervallati da un piccolo piano. Uno di questi, o l'insieme dei due, si chiama pozzo Silvana; alla sua base rasentiamo un limpido specchio d'acqua.
Passiamo da uno scomodo pertugio e ci caliamo nel pozzo Unicum fino a una cengia oltre la quale sarebbe complicato e inutile andare: a qualche metro da noi, infatti, si trova un laghetto sifonante. La peculiarità capace di rendere magico questo luogo è che aldilà del diaframma di roccia che divide il terrazzino si apre un secondo salto, parallelo, tanto simile al precedente da terminare in un laghetto identico. Questo è uno dei luoghi più affascinanti e sorprendenti che abbia mai visto sottoterra e mi pare un poco irriverente stare qui appollaiato come un condor a deglutire pezzi gommosi di un triste panino con la salsiccia, ma da qualche parte dovevamo pur mangiare e in questa fantastica, immensa condotta verticale i posti dove sedersi in 4 si contano sulle dita di una mano.
Risaliamo; nostra prossima meta il pozzo Niagara lungo la via per il fondo principale. Non ci arriveremo mai: nel pianerottolo sopra il Silvana la nostra guida accusa una micidiale defaillance. Forse il freddo, uno sbalzo di pressione, un virus, o semplicemente una scusa per sostare più a lungo in compagnia di noi tre Luca che, bisogna ammetterlo, la natura ha dotato di un certo fascino... cambia poco, siamo bloccati a -200. Ora sto scherzando perchè Elisa è una "roccia" e in un paio d'ore, protetta, rinfrancata e coccolata da 3 bestie rese umane e sensibili dalla necessità, è stata capace di riprendersi e uscire dalla grotta da sola, ma vi assicuro che inizialmente la situazione qualche preoccupazione l'ha creata. Per fortuna abbiamo un aspetto strambo, tute rattoppate, guanti rotti e facce spesso infangate, ma pure testa sulle spalle e discreta esperienza, abbastanza per non lasciare mai a casa il poncho e i teli termici che in una simile occasione si sono rivelati fondamentali.
In tutto una decina di ore prima di riemergere, ed è il termine giusto visto che la risalita del Trieste l'abbiamo fatta in parte sotto una fragorosa cascata d'acqua gelida (assurdo: usciva in gran quantità da una frattura nei pressi dell'ingresso, di notte, sotto zero, con tempo bello... la natura è spesso incomprensibile e probabilmente è preziosa proprio per questo motivo; in ogni caso, a prescindere dalle divagazioni poetiche, mi sa che una "piena" qua dentro sia assolutamente da evitare). Conclusioni: solo metà escursione, ma bellissima notte stellata; neve, ghiaccio, freddo brutale, ma stiamo tutti bene; Elisa viaggia nuovamente come un treno e ci propone di tornare per completare il giro.
Un mesetto dopo va in onda la seconda puntata: guido io, racconto a Dentino, Francesco, Maio e Tazio, 4 ex-corsisti, che andiamo alle Tassare, semplice grotta marchigiana, e partiamo per il Lamar, ben più complessa grotta trentina; a metà strada qualcuno chiede delucidazioni che do senza remore, tanto ormai non si torna più indietro. Ci aspetta Elisa, che ci porterà alla base del Niagara; è nettamente più caldo e restano poche tracce di neve.
Solito canyon, ma appena prima del Trieste affrontiamo una breve risalita. In alto il meandro fa impressione: è largo più o meno un metro e, improvvisamente, senza fondo. Non sto esagerando: questa incredibile fessura consente di raggiungere la parte opposta del maestoso pozzo, ma in pratica altro non è che un grande crepo nel suo soffitto. Sotto vediamo le luci di chi sta scendendo lungo la via che ho percorso la volta scorsa, lontane, paiono mozziconi di sigaretta; se uno scivolasse e se la corda di sicura decidesse di non fare il proprio dovere, con un poco di mira si riuscirebbe a volare per quasi 200 metri!
I 4 compagni d'avventura non parlano, forse neppure respirano; solo Dentino, che d'altronde non tace mai, ripete meccanicamente la stessa frase: "Francesco, attento, bruci la corda" anche nel momento in cui la fiammella è spenta... si può capirli, la grotta maggiore in cui fino a quel momento erano stati potrebbe senza problemi stare un paio di volte nel baratro che abbiamo sotto i piedi. La calata, in parte nel vuoto, è bellissima; alcuni terrazzi, uno stretto passaggio, un condotto parallelo e nuovamente siamo nel Trieste, poi finalmente alla sua base, a -180 circa. Nel rilievo si individuano almeno 4 o 5 percorsi diversi che portano qua; la prima impressione si rivela giusta: siamo in un incredibile labirinto verticale dove ogni dimensione è esagerata, dove si passano ore sempre e comunque legati a corde, o in pozzi, o assicurati nei minuscoli terrazzi che li dividono, o appesi nei vertiginosi traversi che li uniscono.
Un bucanotto, il collegamento Bim Bum Bam, ci permette di scendere ancora, un salto, un secondo, un terzo; atterriamo nella saletta sopra al Niagara, dove in un pertugio dormicchia Walter in attesa di quelli del suo gruppo che stanno risalendo. Dopo i "pendoli", i passaggi in parete, i laghetti sifonanti della volta precedente, il meandro senza fondo e il salto infinito di poco fa, pensavo di non sorprendermi più, eppure devo ricredermi: questa verticale, 50 metri senza respirare, è la più elegante in assoluto. A 5 o 6 metri dalla sua base, da un lungo crepo orizzontale, vi si getta un fragoroso torrente: l'effetto è strepitoso, lo spacco occupa metà parete e pare realmente di avere di fronte una piccola cascata del Niagara.
Qui ci fermiamo (io almeno per 2 ore ad aspettare la risalita di tutti gli altri) perchè il pozzo sotto, chiamato Frastuono, difficilmente viene affrontato... bastano il nome e la visione del quantitativo d'acqua che vi si butta per capirne il motivo. Inizialmente il percorso è quello fatto in discesa, ma appena prima del Bim Bum Bam deviamo in un camino un poco franoso; in alto ci aspettano una bella verticale e una fessurotta, quindi un terrazzino dal quale torniamo a calarci per almeno 40 metri e incredibilmente piombiamo nel punto in cui ci eravamo accampati un mese prima per assistere Elisa, sopra ai pozzi Silvana e Unicum. Giusto per non perdere le piacevoli tradizioni, proprio qui Francesco decide di "dare il collo". Si tratta in realtà di una semplice crisetta dovuta a freddo e stanchezza, e passa in fretta.
Miriamo la Fricca (sarà, ma la frase suona in modo strano...), poi alla base del pozzo Bianco Dentino "capotta". E' grigio chiaro e terribilmente silenzioso, come non credavamo potesse essere neppure da morto; lo trovo in un bucanotto infagottato nel telo termico dal collo ai piedi, oserei dire che aveva assunto un certo interesse archeologico vista la somiglianza con la mummia di Tutankhamon! Anche lui si riprende... sono forti, però, i nostri corsisti... suonati, ma indubbiamente preparati e forti. Sono passate oltre 12 ore quando torniamo all'aria aperta; è notte fonda, ci cambiamo, salutiamo Elisa, utilissima e paziente guida, e partiamo per Forlì.
Qualche giorno dopo ci sarà una terza puntata, questa volta con Fabione e Matteo; oramai la grotta mi ha svelato una parte dei suoi misteri e posso permettermi di accompagnarvi colleghi senza l'ausilio di speleologi del posto. C'è il sole, la giornata è calda e il vero problema è riuscire a trovare la voglia di entrare. Il percorso sarà simile al precedente, con un paio di variazioni legate al fatto che una parte dell'abisso è stata nel frattempo disarmata. Da segnalare solo che decido di lasciare uno spezzone di corda nel traverso velenoso sul pozzo Fango, prima del Bianco, quello da incubo, che in ogni caso in futuro sarà necessario rendere più sicuro. Ci muoviamo velocemente, con tranquillità, siamo a nostro agio nonostante i passaggi tecnicamente complessi, difficili da interpretare; lo scopo, quello di aumentare la nostra esperienza, la nostra sicurezza, è raggiunto. Proprio per questo motivo, e per il suo innegabile fascino, il Lamar è una grotta preziosa.
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