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Articolo inserito in data 26/09/2009 17:12:51
I miei racconti
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GIANLUCA CARBONI - "Chloe"

Questo racconto appartiene all'autore. Puoi leggerlo, stamparlo, ignorarlo o consigliarlo a un amico, ma ricorda che "tutti i diritti sul testo sono riservati".

Chloe

Mi alzai da letto dopo una settimana di forti nausee e cefalee causate probabilmente da un virus, uno di quelli che scandiscono la nostra vita manifestandosi in epidemie influenzali che identifichiamo con nomi esotici. Tanti giorni mangiando il minimo indispensabile per non finire in ospedale, con un malefico raffreddore capace di stringermi la testa in una morsa brutale e a volte picchi febbrili che amplificavano il senso di intontimento favorito dalla debolezza.
Feci una doccia caldissima e mi lavai con cura i capelli; ricordo la meravigliosa sensazione della troppa schiuma che mi scendeva sul viso, sul torace, lungo la schiena, accompagnata dall'acqua che quasi bruciava sulla pelle, l'impressione di tornare a vivere, la voglia di fare mille cose tutte assieme, di partire, di comprare, di scrivere, di respirare sotto i raggi del sole, di correre ascoltando musica.
Mi sedetti di fronte allo schermo e mi collegai ad Internet, entrai nel sito ... e prenotai una camera in un albergo a Parigi per alcune notti, poi decisi che era giunto il momento di vedere Amsterdam, perché vi era stata organizzata una grande mostra su Van Gogh, perché è a due passi dalla capitale francese, perché era l'inizio della primavera, perché mi era apparso nel video un'immagine della città olandese, e prenotai una camera lassù per le notti successive.
Stampai i voucher, spensi il pc e uscii da casa. Camminai un poco lasciandomi stuzzicare dall'aria frizzante e raggiunsi un parco dove mirai una rustica panca tranquilla fiancheggiata da due giovani carpini che iniziavano a tingersi del verde delicato di foglie e fiori.
Era una splendida giornata di fine marzo e sul prato chiacchieravano due madri mentre i rumorosi pargoli si accapigliavano per un presunto diritto di precedenza sull'altalena per loro più bella. Ad occhi chiusi ripensai all'orribile settimana trascorsa, a come e quando avevo deciso di partire e soprattutto a dove e perché avevo deciso di andare: a Parigi sono sempre stato bene, è una metropoli che pare costruita apposta per le persone come me, con i suoi viali, i giardini, le pittoresche chiese dai mille pinnacoli e i grandi musei dove è possibile passare le ultime ore del pomeriggio passeggiando ipnotizzati dall'immensa grandezza delle opere esposte, con le brasserie che propongono piatti semplici da mattina a sera, le bancarelle dai tanti colori che promettono altrettante piccole sorprese e i grandi negozi di dischi dove è normale sedersi a terra e in cuffia ascoltare musica, e le grandi librerie dove lo è leggere un libro appoggiati a uno scaffale; non conoscevo invece Amsterdam e mi ci portava la voglia di scoprirne il fascino trasgressivo, di osservarne nei canali le immagini riflesse di case slanciate dall'architettura tanto caratteristica, di affogare la mia malinconia nella sua scintillante multietnicità, e mi ci portava la convinzione che tanti dipinti di Van Gogh tutti assieme non sarei più riuscito a vederli.
"In auto a Parigi, poi in poche ore ad Amsterdam e il ritorno dal mare del Nord attraversando la Germania e l'Austria, sarà un'avventura... la Francia, l'Olanda, la Germania e l'Austria, tutto in una settimana... la Germania...", improvvisamente mi resi conto di non essere così sicuro che le due capitali europee fossero tanto vicine fra loro e mi diressi a casa con l'intenzione di studiare meglio l'itinerario.
Incredibile, mi era sfuggita la presenza del Belgio: per arrivare ad Amsterdam partendo in auto dal centro di Parigi occorre quasi una giornata!
Incredibile, mi era sfuggita anche la consapevolezza dello scorrere del tempo: avevo prenotato la camera nell'albergo in rue de Rivoli, a due passi dal Louvre, per l'indomani!

Albeggiava alle mie spalle mentre entravo nel tunnel del Frejus; feci colazione a Chambery, poi mi fermai ad Auxerre per ambientarmi ulteriormente respirando con tranquillità una boccata d'aria francese prima di giungere nella capitale. Conoscevo la strada avendola già percorsa un paio di volte e non fu un problema orientarmi a Parigi, così prima dell'ora di cena scaricai nella hall dello storico hotel un goffo borsone e una valigetta rigida con parte della mia vita dentro.
La camera era piccola, al millesimo piano di un'ala lontana mille metri dall'ingresso del palazzo ottocentesco, ma elegante e accogliente. Ignorai il bagaglio informe che un sorridente ragazzo della mia età aveva lasciato su un curioso trespolo e sul tavolino appoggiato al muro sotto a un grande specchio con una cornice ricca di riccioli d'oro sistemai il pc, a fianco di un'abat-jour che pareva appartenere a epoche lontane. Mi accorsi che tutto l'arredamento pareva appartenere a epoche lontane: il pc aggiungeva un tocco di raffinata modernità a ciò che aveva attorno, esaltava con lo schermo lucido e i suoi riflessi metallici l'aspetto classico della stanza... il mio borsone rosso e blu era invece orribile!
Dalla valigetta tolsi anche un paio di libri, qualche foglio, una penna, una piccola macchina fotografica e un minuscolo registratore portatile a forma di goccia asimmetrica; utilizzai qualche altro minuto per rinfrescarmi il viso, spazzolarmi i capelli, frugare nell'armadio nel vano tentativo di individuare un pertugio per nascondere il bagaglio informe che oramai da solo riusciva a compromettere l'armonia del luogo, e decidere dove e cosa mangiare. Impensabile ordinare telefonicamente qualcosa al ristorante dell'albergo: non capivo cosa potessero contenere i piatti dai nomi elegantissimi elencati nel menù e certamente non ero in grado di chiedere informazioni complesse, soprattutto sull'eventuale presenza di sostanze alle quali sono intollerante. Così uscii ignorando la stanchezza dovuta alle molte ore di viaggio, o meglio godendo del senso di libertà che un cervello in grado di ricevere ed elaborare informazioni, ma a causa di un piacevole torpore non di porre limiti convenzionali, può donare.
Furono giornate rilassanti quelle a Parigi, trascorse passeggiando senza una meta precisa, curiosando dentro chiese e palazzi, ignorando orologi e abitudini, leggendo, scrivendo, dormendo, mangiando ogni qualvolta ne avevo voglia; un solo appuntamento scandiva il passare del tempo: le 16, il momento in cui puntualmente tutti i pomeriggi entravo al Louvre. A dire il vero non ero così preciso, ma a me piaceva credere di esserlo per mantenere almeno una regola che mi ricordasse lo svolgersi della vita normale, quella di tutti i giorni, quella delle sveglie, dei parcheggi da cercare, dei cartellini da timbrare, dei contratti da rispettare, degli orari, dei telefoni che ti trovano ovunque, dei telegiornali che ti raccontano com'è il mondo artificiale che responsabili e loro padroni hanno interesse che tu creda reale, della cena e della lavastoviglie da riempire, del caffè bevuto in piedi, di fretta, e della birra al pub, la stessa, con gli amici, gli stessi, e le chiacchiere, le stesse, in attesa che giunga l'ora di andare a dormire, ricordandosi di predisporre la sveglia.

Giunsi ad Amsterdam nel tardo pomeriggio dopo aver sbagliato strada una sola volta, proprio in Belgio. Subito mi colpì la piacevole abitudine degli Olandesi di muoversi prevalentemente in bicicletta: ve ne erano ovunque e sfrecciavano, anche troppo veloci, nei chilometri di piste riservate, curatissime. E mi colpì la conseguente assenza del rumore di fondo del traffico automobilistico al quale senza rendercene conto siamo tristemente abituati.
L'albergo aveva un aspetto pittoresco, ma la mia camera era modernissima; parcheggiai nel cortile di fronte all'ingresso e non toccai più l'auto fino al momento della partenza.
Quella sera passeggiai a lungo cercando inutilmente un ristorante tipico, poi cenai in un locale che pareva un ranch texano; mi accorsi in seguito che non esisteva, o non riuscivo a trovare, un qualcosa che si potesse definire "trattoria olandese", ma in compenso la gastronomia di ogni regione mondiale aveva un posto dove potersi esprimere in quell'inimitabile città.
Mi alzai il mattino successivo con un proposito preciso: dovevo assolutamente prenotare una visita alla grande mostra su Van Gogh e Gauguin e l'avrei fatto battendo a tappeto le agenzie turistiche; la ricerca mi avrebbe portato fra l'altro a girovagare per vie, piazze, ponti e canali permettendomi così un ambientamento più rapido. Ero curioso, euforico, determinato, avevo uno scopo da raggiungere e mi sarei mosso in un luogo che non conoscevo, avevo un territorio vergine da esplorare, affascinante, leggendario, mitizzato nei racconti di tanti amici, nelle descrizioni di guide e libri, ed ero libero di agire, decidere, cambiare itinerario in base all'ispirazione del momento, cambiare strategia in base alle impressioni, ai dati che avrei man mano immagazzinato... sì, ero libero, felice, giovane e forte, neppure ricordavo i giorni di malattia che però inconsciamente contribuivano al mio stato di eccitazione.
Arrivai al Dam, la grande piazza cuore della città sulla quale si affaccia il palazzo Reale, e più che bella mi parve viva, animata, colorata da mille personaggi, alcuni particolarmente originali, eppure perfettamente a proprio agio perché inseriti in un ambiente che garantiva uno spazio a tutti, purchè rispettosi di quello degli altri. E' una sensazione che si prova presto avendo la possibilità di andare a zonzo per alcune capitali del nord Europa e più che le parole può descriverla l'immagine osservata qualche giorno prima in piazza Vendome, a Parigi: un clochard che dormiva appoggiato al margine della vetrina di un'oreficeria con esposti orologi e anelli da migliaia di euro, un paio di turisti che per nulla intimoriti ammiravano i gioielli, e un gendarme attento, forse un po' annoiato, che vigilava sulla tranquillità dei tre.
Nella prima agenzia mi dissero che non vendevano biglietti e non facevano prenotazioni per la mostra, nella seconda che i posti da prenotare erano esauriti da settimane; il mio buon umore si incrinò e con esso la sicurezza, la giornata di sole era in realtà nuvolosa e il cielo biancastro leggermente opprimente. Tornai in piazza, entrai nel palazzo Reale, poi nella bellissima basilica gotica che sorge vicina. Il tempo correva nella mia mente aumentando il senso di disagio, può succedere inseguendo un pensiero fisso e non avendo una compagna, un compagno di viaggio con cui condividerlo, col quale elaborarne sviluppi, che ti dica: "Ok, nessun problema, siamo ad Amsterdam e il sole è lì dietro, pronto a sorriderci di nuovo... andiamo, su, migliaia di chilometri e forse la mostra non la vedremo, i soli al mondo che per arrivare qui hanno creduto conveniente passare da Parigi... non è una situazione comica? Siamo fortunati, liberi come un respiro, un'idea ci verrà, e se anche non fosse avremo altre cose da raccontare".
Stavo seduto su una panca nella navata centrale, certamente imbronciato, con la guida turistica in una mano e la macchina fotografica nella tasca del giubbotto di jeans, quando l'idea venne e la determinazione tornò: mi sarei alzato presto la mattina dopo, sarei andato davanti alla biglietteria del museo Vincent van Gogh, lì avrei aspettato per ore, come ai tempi delle grandi mostre di palazzo Grassi a Venezia, e in qualche modo sarei riuscito a entrare, sudandomi un tagliando, o aggregandomi a un gruppo, o inventandomi una qualche storia, fingendo di non capire... l'avevo già fatto, non ricordo dove, forse a Piacenza, e quando il custode si rese conto dell'"equivoco" ero già di fronte al quadro che mi interessava, di Antonello da Messina...
Tornò così anche la splendida sensazione che si prova raggiungendo la cima di una montagna, stremati dallo sforzo, dal dolore a braccia e gambe, ma in quell’attimo commossi perché leggeri, invincibili.
Misi in tasca la guida e uscii dalla chiesa certo di vedere il sole rossastro avvicinarsi ai tetti delle case a occidente: era lì, e il mondo era ai miei piedi.
Attraversai la piazza, camminai per una decina di minuti, superai un ponte convinto che ogni essere vivente in quel momento avesse un motivo per gioire; neppure mi accorgevo di chi avevo attorno, del fatto che ci fossero molte più persone di prima, poi un ragazzo mi fermò e mi domandò qualcosa. Inizialmente non capii, ma avevo notato il suo atteggiamento guardingo; gli chiesi di ripetere quanto aveva detto e alle prime parole sussurrate mi resi conto di cosa mi stava accadendo, a pochi metri da un enorme poliziotto nero incuriosito dalla scena, con la mano destra appoggiata sull'altrettanto grosso manganello che portava allacciato alla cintola: il ragazzo mi stava proponendo l'acquisto di droga, quella che presumibilmente preferivo, ed elencava prodotti della metà dei quali mai avevo sentito il nome.
Gli sorrisi, lo ringraziai e con un cenno del capo cercai di convincerlo che non mi interessava la sua merce; sorrise anche lui e in un attimo si dileguò. Io ostentavo sicurezza, indifferenza, ma non mi abbandonava l'impercettibile tremore, sentivo su di me gli occhi del gendarme, non osavo guardarlo perchè temevo la sua reazione, il suo manganello. Presi la macchina dalla tasca e feci un paio di foto alla casa di fronte: aveva graziose finestre in legno e delicate cascate di fiori gialli e rossi che dai vasi sui davanzali scendevano fin quasi al piano inferiore, era aldilà di uno stretto canale dove l'acqua pareva immobile riflettendo la luce dei lampioncini che proprio in quel momento si stavano accendendo. Alzai lo sguardo verso il tetto, verso il cielo, quindi lentamente mi voltai simulando la turistica ricerca di un nuovo scorcio caratteristico... non c'era più, il gigantesco tutore dell'ordine era scomparso come il giovane spacciatore, come il più comune degli incubi.
C'era però tanta gente che passeggiava e a gruppetti si fermava davanti a piccoli negozi illuminati tutti curiosamente simili, e chiacchierava ridendo a volte sguaiatamente; qualcuno camminava da solo, come me, ma pareva avere una meta verso cui dirigersi velocemente lanciando furtive occhiate alle vetrine dove da lontano riuscivo a scorgere lampadari appesi, qualche mobile classico, banali quadretti alle pareti, banali tendine, oggetti d'arredamento demodé, un po' kitsch come nel salottino di una vecchia casa pretenziosa. Mi avvicinai ad una di queste per capire cosa mi nascondesse nella parte inferiore il muro animato di uomini evidentemente interessati; dovevo intuirlo, l'avrei fatto se non mi fossi perso in mille pensieri, emozioni, se avessi ricordato che mi trovavo ad Amsterdam, che esiste in questa città un quartiere a luci rosse, se la preoccupazione per il biglietto prima e la paura del manganello poi non avessero alterato la mia percezione della realtà: due donne, due ragazze molto belle, quasi nude, sedute su poltroncine foderate di tela damascata rosso porpora, osservavano la folla senza vederla, con gambe affusolate, accavallate, seno rotondo, morbido, braccia sottili e dita sottili, lunghe, eleganti come quelle di un pianista. Il loro volto era splendido seppur troppo colorato, seppur immobile come fosse di cera. Le guardai, guardai affascinato quei corpi perfetti, ma rimasi fisso sui loro occhi di cristallo... si accorsero di me, forse percepirono la mia ammirazione che nulla centrava col sesso, forse sentirono il sentimento che da amore istantaneo si era trasformato in disagio, in tristezza, forse creavo loro distubo e mi allontanai confuso; notai la porticina che sempre era a fianco della vetrina, e quella simile che dal salottino pubblico permetteva di accedere agli ambienti interni.
Avevo ancora in mano la macchina fotografica, mi vergognai al pensiero che qualcuno potesse credere che volessi usarla in quel luogo. Mi sedetti su un pilastrino di pietra per riordinare i pensieri, emozionato, imbarazzato, incantato, innamorato, ma soprattutto immensamente triste. Tornai in albergo.

Alle 8 ero di fronte alla biglietteria del museo Vincent van Gogh, solo come la luna in una notte senza stelle.
Non era giorno di chiusura e i cartelli semplicemente indicavano orari e prezzi; dopo un'oretta arrivarono tre turisti tedeschi; era per me inconcepibile che non ci fossero altre persone e fino a quando la cassa non aprì continuai ad avere dubbi assurdi sull'esattezza del luogo, della data, a immaginare motivi che avrebbero impedito la mia visita... forse da quell'ingresso si accedeva al museo e non alla mostra, forse si accedeva solo con le prenotazioni, forse era sciopero e in tutta Amsterdam eravamo in quattro, io e i Tedeschi, a non saperlo...
Ebbi così la fortuna di entrare per primo e rimanere spesso l'unico visitatore. Presto un turbine di emozioni mi sconvolse: la disperazione di Van Gogh è nei suoi quadri, evidente, nelle sue pennellate pesanti dai colori vivissimi, la sua solitudine è lì pronta ad assalirti, le sue paure emergono vive come le mie, nessuno come lui è riuscito a rappresentare su una tela sentimenti così potenti. Passai ore in quelle sale, davanti alle tre versioni dei "Girasoli", ipnotizzato dagli occhi di quei ritratti, dai paesaggi, i campi, gli alberi, i cieli, gli astri, poi restai letteralmente impietrito al cospetto di quello che credo possa essere considerato il suo testamento spirituale: "Il campo di grano con corvi", dipinto pochi giorni prima del suicidio... il suo dramma esistenziale è in quella luminosissima atmosfera cupa, nel contrasto cromatico carico di presagio, e il volo dei mille corvi neri sull'oro del grano e sul blu inquietante del cielo annuncia la fine imminente...
Una fissazione divenne realtà nella mia mente creando un micidiale malessere, quasi una vertigine che provocava nausea: mai più sarei riuscito a vedere qualcosa di altrettanto drammatico, a provare sensazioni così forti, profonde, scioccanti, mai più mi sarei sorpreso di fronte a un'opera perché avevo avuto la fortuna, o la sfortuna, comunque la certezza di aver ammirato le massime espressioni artistiche possibili per un uomo.
Nel primo pomeriggio raggiunsi barcollando una panchina nei giardini vicini al museo e quasi caddi sedendomi; il sole era pallido, ma si avvertiva il suo calore e riposante era il colore che donava agli alberi lì attorno. Non avevo mangiato dal giorno prima, ero indebolito, demotivato, intimorito, consapevole dell'esistenza della sindrome di Stendhal e lontanamente della necessità di reagire al torpore che mi stava rallentando i riflessi, rivoltando lo stomaco, certo di essere febbricitante e in balia di spacciatori e gendarmi sospettosi, certo del loro prossimo arrivo guidati dalle ombre che sentivo velocemente allungarsi verso di me. Invece mi distrasse una voce femminile:
"Ciao, Italiano, c'è qualcosa che non va?"
I miei gomiti erano appoggiati alle gambe e le mani parevano sostenere la testa, i pollici sugli zigomi mentre gli indici accarezzavano lentamente le tempie, i miei occhi erano socchiusi per limitare gli effetti della nausea e la schiena curva in avanti: è una posizione questa che assumo anche ora, dopo tanto tempo, e chi mi conosce sa che quando succede qualcosa non va.
Aprii gli occhi, guardai avanti alzando leggermente la testa, ma non riuscivo a focalizzare le immagini, poi mi voltai a sinistra passando con le dita dalle tempie alla fronte, sempre massaggiando con delicatezza, e mi accorsi che accanto a me era seduta una ragazza sorridente, non avevo immaginato quella frase.
"Io... sì, la testa gira un po', forse ho dimenticato di mangiare..."
Idee ancora più confuse mentre la osservavo, ma se non altro almeno due certezze nella mente: lei aveva un'espressione dolcissima ed io ero di una banalità disarmante... "forse ho dimenticato di mangiare... mi crederà un idiota, si alzerà e se ne andrà...", pensai.
Invece continuò a guardarmi sorridendo... come era bella...
"Scusami, mi chiamo Luca. Ero al museo, il tempo è volato, Van Gogh mi ha rapito e io per un po' ho viaggiato con lui, così ho saltato il pranzo, e ieri la cena perché... non importa, come hai fatto a capire che sono Italiano?"
"Andiamo a mangiare un panino? Lì all'angolo c'è un posto simpatico, una piccola birreria che ogni tanto è aperta", disse.
Così conobbi Chloe, così mi stupì Chloe e continuò a farlo per due giorni.
Ci incamminammo. Era alta una decina di centimetri in meno di me, aveva capelli neri lunghi fino alle spalle, un volto splendido e grandi occhi luminosi, forse neri come i capelli. Era esile, ma non magra, con una t-shirt scura, una giacchetta di cotone corta che appena le copriva la vita e jeans attillati sui quali portava graziosi stivaletti. Mentre parlava, mentre mi ascoltava, inclinava leggermente la testa a sinistra e aveva uno sguardo intenso; sorrideva spesso e quando non lo faceva ai lati della sua bocca appariva una fossetta che le donava un'incantevole espressione corrucciata.
Disse che solo un Italiano riusciva ad essere contemporaneamente trasandato ed elegante come me, che il pittoresco gestore della birreria teneva il locale aperto quando si accorgeva di aver terminato il denaro, mentre il resto del tempo lo trascorreva a passeggio con l'alano che nei giorni lavorativi sonnecchiava sotto ai tavoli, disse poi che Van Gogh l'affascinava pur inquietandola, che mai si dovrebbe guardare un suo quadro senza poter condividere immediatamente l'emozione con qualcun altro.
Conversammo a lungo in quel posto che era aperto e realmente simpatico, con uno stretto bancone di legno consumato dai gomiti di chissà quanti clienti e nell'aria l'aroma persistente della cipolla che rosolova su una piastra in attesa di riempire assieme a uova e hamburger gustosi, enormi panini; enorme era anche la testa del docilissimo alano che sbadigliando venne ad accoccolarsi ai nostri piedi appoggiandola pesantemente alla mia gamba. Poi lei mi disse che doveva andare: lavorava in un ristorante del centro come cameriera e studiava ad Amsterdam da qualche anno, non ricordo cosa. Aggiunse che avrebbe terminato il turno all'una e se avessi voluto avrei potuto raggiungerla per fare assieme un tour notturno della città. Rimasi solo fra curiosi personaggi che bevendo birra parlavano di calcio mimando goffamente eroiche gesta sportive.
Tornai in albergo, feci una doccia e mi stesi sul letto; erano le 20 di una sera tranquilla, di un giorno sconcertante. Ripensai all'inutile attesa davanti alla biglietteria, a Van Gogh, alla nausea sparita in un attimo e al gendarme, al quartiere a luci rosse e all'eccitazione eccessiva dei frequentatori, a quella più simpatica della gente nella birreria, ma ogni immagine nella mia mente presto si dissolveva per lasciare posto al volto di Chloe, ai suoi profondi occhi scuri, alla dolcissima espressione imbronciata che mai più avrei dimenticato. Alle 21, convinto fossero trascorse varie ore, mi resi conto che quella sarebbe stata una delle sere più lunghe della mia vita; comunque, lentissimo, il tempo passò e verso mezzanotte uscii dalla camera. Il portiere non si preoccupò di me, probabilmente abituato ai frequenti movimenti notturni in quei luoghi tolleranti e trasgressivi.
Raggiunsi il Dam e fingendo indifferenza rallentai; ero in anticipo, agitatissimo, e la dignitosa idea di aver solamente sognato l'incontro lasciava spazio ogni tanto a quella ben più deprimente che l'indirizzo fosse sbagliato, che Chloe, annoiata dai miei discorsi, si fosse liberata di me col trucco più antico del mondo... quanta insicurezza in quegli anni lontani, quanta tenerezza, fantasia, quanto entusiasmo e quanto facile perderlo...
Scattai qualche foto appoggiato a muri e lampioni per evitare che i tempi lunghi dovuti alla poca luce registrassero i miei movimenti involontari rendendo confuse le immagini, osservai in raffinate vetrine abiti alla moda recitando per inesistenti spettatori la parte dell'accorto possibile acquirente, riuscii addirittura a fermarmi davanti a un manifesto senza figure, con frasi scritte fitte fitte in una lingua arcana che neppure mi permetteva di comprendere l'argomento trattato... con sarcasmo si potrebbe chiamarla codardia, o gentilmente timidezza, ma sarebbe in entrambi i casi errato: era semplicemente l'ingenuo tentativo di un giovane uomo inesperto di rallentare il trascorrere del tempo, per prolungare una speranza.
Comunque davanti al ristorante vi arrivai, in orario. Lei uscì poco dopo; aveva lo sguardo stanco, ma appena mi vide sorrise radiosa: "temevo non venissi", disse, "credevo di essere stata troppo invadente..."
Era quasi l'alba quando giungemmo di fronte a casa sua, abbracciati per resistere al freddo; baciai delicatamente la sua caldissima mano e restai a guardarla affascinato mentre saliva sui gradini che precedevano l'ingresso: era bellissima, elegante come la coda di una cometa e come questa eterea, preziosa come la vita e come questa indefinibile, era la dolcezza, la femminilità, l'incantevole creatura di una fiaba della quale si innamorano le farfalle, gli alberi, i fiori, per la quale le stelle brillano di più perché lei è l'essenza stessa dell'amore. Prima di entrare si voltò, sorrise fulminandomi definitivamente e ancora mi salutò, mandandomi un bacio.
Ci saremmo rivisti il pomeriggio successivo nella solita birreria, col solito gigantesco alano fra i piedi, sempre che il gestore non avesse nel frattempo guadagnato a sufficienza e deciso così di rimandare l'apertura.
Mi svegliai a mezzogiorno, scesi nella sala per la colazione nel tentativo di procurarmi almeno un caffè e mi stupì il ricco buffet con yogurt, panini, salumi, formaggi, uova, paste dolci e salate, frutta, che pareva in attesa del mio arrivo. Mi avvicinai timidamente reputando possibile l'imminente svolgersi di un party al quale non ero stato invitato, ma nessuno intervenne per fermarmi e il profumato caffè trovò un adeguato accompagnamento.
Fuori il sole era alto, il cielo azzurro, senza nubi. La giornata era molto luminosa e le tante case a schiera aldilà del canale che rasentava l'ala dell'albergo risultavano particolarmente scenografiche: notai che erano tutte simili, ma si distinguevano per sfumature nel colore e piccole caratteristiche che testimoniavano del gusto degli abitanti; erano sempre strette e alte, e ognuna terminava con un fantasioso tetto differente da quelli vicini. Le finestre avevano spesso cornici bianche e a volte sembravano appoggiarsi sul letto di fiori che ne nascondeva il davanzale. Non c'erano auto nella viuzza che separava gli ingressi dall'acqua.
Era un bel giorno il mio ultimo giorno ad Amsterdam.

Restammo pochi minuti nel locale di Kurt, oramai erano miei amici lui e il cane Dog, giusto quelli necessari per bere un paio di birre decidendo cosa fare nel pomeriggio. Chloe propose un giro in battello, io avrei accettato qualunque programma pur di starle accanto.
Mentre salivamo sull'imbarcazione una ragazza ci ritrasse e mi fece capire che al ritorno avrei potuto acquistare la fotografia, quella che ora ho qui nelle mani, consumata.
Parlammo di mille argomenti, soprattutto lei, e io l'ascoltavo incantato: raccontava dei suoi progetti, orgogliosa di riuscire a mantenersi, a studiare senza saltare un esame, felice di vivere ad Amsterdam, ma in futuro forse avrebbe cambiato città, forse sarebbe tornata in Francia perché amava la campagna dove i suoi genitori coltivavano vigneti, vicino ad Albi, la città medioevale di Toulouse-Lautrec. Raccontava della sua difficoltà a comunicare con le persone perché troppo spesso si dimostravano fredde e calcolatrici, schiave di convenzioni, pronte a fraintendere intenzioni e azioni, e altrettanto spesso banali, infantili, incapaci di elaborare un sogno, anche solo riconoscerne l'importanza, di quanto poi mi avesse spiato prima di trovare il coraggio di rivolgermi la parola, di quanto barcollassi all'uscita dal museo, di quanto fossi pallido, ma evidentemente non malato, non ubriaco, non drogato, di quanto le piacessero il mio modo di camminare, di dialogare, quasi sussurrare perché sicuro dei miei argomenti, i miei silenzi mentre la osservavo...
In realtà la mia storia, i miei argomenti non potevano paragonarsi ai suoi, e meno ancora poteva farlo il mio atteggiamento di fronte alla vita: lei era ottimista, radiosa, apparentemente indifesa, ma coraggiosa, determinata pur emanando dolcezza e serenità, io invece malinconico, a volte cupo, travolto da entusiasmi e abbattimenti improvvisi, insicuro, indeciso... le parlai dei miei sogni, del piacere di scrivere, del lavoro di chimico distante anni luce da ogni forma d'arte, della mia casa ereditata e trasformata in un nido sicuro dove rifugiarmi fra libri e dischi, degli amici e del mio paese, della nebbia che nelle città della pianura Padana è meno poetica che in Bretagna...
Così arrivò la sera e dovetti attendere ore interminabili per rivederla. Non avevo però la percezione dello scorrere definitivo del tempo, giorno e notte si alternavano e non me ne accorgevo, l'universo si muoveva pacatamente come sempre e mi aveva lasciato indietro, o forse mi muovevo con esso, ma isolato in una bolla di sapone dentro la quale parole come "cibo", "luce", "buio", "spazio", "freddo" non avevano significato. Restai seduto sulla mia panchina, sulla nostra panchina, mia, di Chloe, di Van Gogh e aspettai ipnotizzato dalla blanda foschia che dai prati si stava alzando rendendoli opachi, enigmatica avvolgeva gli oggetti e con lentezza, inesorabile, penetrava attraverso le sottili pareti della mia bolla.
Conversammo ancora occupando un divanetto in un locale con tavolini e bancone in legno e graziose lanterne dalle quali lampadine giallastre contribuivano a evocare atmosfere antiche, passeggiammo ancora tenendoci per mano, abbracciati in quella che oramai era nebbia, a fianco di canali silenziosi, in vicoli dove si poteva ascoltare il nostro respiro. Poi il cielo divenne più chiaro e il freddo pungente.
Eravamo fermi davanti ai gradini della casa di Chloe, le sue mani nelle mie, i suoi brillanti occhi neri fissi sui miei grigi.
"Io... devo andare in albergo, preparare la borsa... viaggerò senza sosta, in Germania... il Brennero... domani tornerò al lavoro...", parole inutili, prive di valore.
Lei da qualche minuto taceva, solo mi guardava e io sentivo un poderoso artiglio stritolarmi lo stomaco mentre i polmoni collassavano e neppure provavano a cercare aria:
"Perché non resti? Potrei ospitarti... abiteremmo assieme, potresti scrivere un romanzo, nel frattempo trovare un lavoro, qui è facile... se non funziona l’Italia sarà sempre lì, vicina...", disse tutto d'un fiato vincendo la paura di non essere capita perché più forte era quella di perdermi.
"... è difficile... in azienda mi aspettano, dovrei... e non saprei come fare per la casa, mia madre... è difficile in questo modo..."
"Scusa, ho capito... non servono spiegazioni...", sussurrò, e improvvisamente corse verso la porta. Poi si bloccò, tornò indietro, per un attimo mi baciò accarezzandomi il viso, lasciandomi sulle labbra il sapore salato delle sue lacrime.
Non la vidi più.

Sono passati quasi 30 anni da quei giorni, da quel drammatico, stupido viaggio di ritorno. Ho guardato spesso questa vecchia foto contribuendo col tatto, col respiro, a volte con le lacrime a sbiadirne i colori; nei primi mesi era un gesto inutile perchè Chloe era ovunque, mi osservava silenziosa seduta a tavola di fronte a me, a fianco nel divano mentre tentavo inutilmente di combattere il gelo col fuoco del camino, in ufficio, per strada, in palestra, in grotta, in montagna mentre tentavo inutilmente di riempire con l'emozione di una scalata il buco nero che avevo nel cuore. Attendeva paziente che mi svegliassi, innamorata mi accarezzava nei sogni.
Una notte smisi di sognare e subito dopo anche di provare a scrivere storie.
Questa mattina sono entrato in clinica, domani sarò operato; il chirurgo ostenta sicurezza, io ho paura.
Sono vissuto con facilità per fortuna e non per merito mio, anzi fuggendo quando serviva coraggio, ora però che è impossibile farlo ho ripreso in mano una penna e finalmente completato un racconto, questo, il primo... forse è tardi, lo so... per noi certamente... perdonami, dovunque tu sia perdonami, dolcissima Chloe, e aiutami...

Gianluca Carboni

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