Salvatore Satta
"Il giorno del giudizio"
Si tratta di un capolavoro costruito in modo apparentemente casuale, di notevolissima intensità, in cui l'autore descrive la vita, le caratteristiche e le abitudini delle persone che abitano Nuoro nel periodo che va dall'inizio del 1900 agli anni fra le due guerre. E' straordinaria l'immediatezza delle immagini e dei concetti che amplificano il valore antropologico-culturale del romanzo.
Personaggio principale è don Sebastiano Sanna, notaio della cittadina sarda; le sue convinzioni, i comportamenti, le evidenti contraddizioni, il carattere, quindi la sua vita e quella dei famigliari, soprattutto di donna Vincenza, la moglie, sono il pretesto per costruire una nitidissima, fedele, preziosa, cruda immagine di Nuoro e delle tradizioni secolari, delle consuetudini radicate che fino a quel periodo storico ne avevano condizionato totalmente l'esistenza degli abitanti.
Don Sebastiano è nobile, ricco grazie al lavoro a cui si dedica con responsabilità, impegno e precisione maniacale; è inflessibile e crudele, soprattutto con donna Vincenza, ma solamente perché è ligio a uno schema preciso, l'unico che conosce, in cui ruoli e responsabilità sono dettati a uomo e donna da usi e costumi, in famiglia come in società. Ha 7 figli maschi; ognuno di loro studia, pian piano fa scelte e prende strade che lo allontanano definitivamente dalla famiglia. Il padre, incapace di comprendere esigenze e adattarsi a cambiamenti, subisce passivamente la fine del suo statico mondo ancestrale.
Un numero enorme di personaggi contribuisce a colorare il grande affresco, da quelli appartenenti alla dinastia dei Corrales, ricchi, scaltri e potenti pastori dediti all'abigeato, ai rassegnati contadini, ai nobili, ai preti e ai canonici, ai parenti, agli sfaccendati del caffè Tettamanzi, ai maestri, alla prostituta, impazzita e nella povertà più assoluta, ai miseri dementi. Molto bella è la figura di zio Poddanzu, il servo di campagna che cura le proprietà di don Sebastiano (in parte simile al servo Efix del celebre romanzo "Canne al Vento", di Grazia Deledda), umile, puro, saggio seppur in modo ingenuo, onesto, affidabile, coerente come don Sebastiano, ma nettamente più pratico nella vita reale, quella che prevede rapporti diretti e confronti con gli altri.
Tutti nel paese hanno un ruolo e sono destinati a recitarlo fino alla morte, vittime e carnefici, deboli e potenti, fannulloni e lavoratori, onesti e disonesti, furbi e dementi. Nessuno mette in discussione le parti assegnate, tranne Ricciotti Bellisai, un maestro avvelenato dall'invidia che prova con la politica prima e la maldicenza poi a complicare la vita del protagonista; quest'ultimo è incapace di reagire, di difendersi razionalmente nonostante l'evidente correttezza delle sue azioni e il prestigio di cui gode, perché in fondo la sola cosa che sa fare nella vita è il notaio, attività svolgendo la quale ripete in modo quasi ottuso sempre le stesse azioni, accumulando inutile ricchezza. In entrambi i casi, a sua insaputa, è la concretezza di zio Poddanzu a toglierlo dai guai.
Sono tanti gli episodi significativi, utili allo scrittore per illustrare il palcoscenico della recita e l'interiorità di personaggi che paiono pietrificati nella storia e perciò spariranno, saranno dimenticati: l'arrivo dell'illuminazione pubblica elettrica, la campagna elettorale, la partenza per la guerra, l'assassinio compiuto da un servo di don Sebastiano, il suicidio di Pietro Catte che eredita i soldi della zia e parte per Milano, prova quindi a cambiare il proprio ruolo, dove viene truffato e derubato di ogni avere, i fatti che caratterizzano la vita della cugina Gonaria, la sua fede, la perseveranza, le stranezze delle sorelle schiave di fissazioni, la venerazione per il fratello Ciriaco che diventa canonico, si ammala e muore, la chiusura per anni della sua stanza considerata come un santuario da preservare, la riapertura della stessa e la scoperta della distruzione causata dai topi, la fuga dalla realtà andandosene a piedi da Nuoro.
Uno dei figli muore di malattia, gli altri spariscono dall'ambito famigliare e si disinteressano dei genitori; resta nella grande casa quasi vuota, assieme a donna Vincenza, cieca, invalida per l'artrite, sempre più lontana da un marito che disprezza perché reputa, in parte a ragione, colpevole della propria solitudine, del fallimento che sente dentro, il solo Ludovico, che fa l'avvocato, ha successo, ma in realtà è una persona insulsa, inconcludente, capace di mandare in malora anche il proprio decennale fidanzamento, e in definitiva rappresenta la testimonianza vivente dell'impossibilità di perpetrare ulteriormente il piccolo universo stagnante di don Sebastiano e dei compaesani descritti.
Lo scrittore torna a Nuoro e visita il cimitero perché qui deve incontrare i morti che lo chiamano, i personaggi reali del romanzo che si rivolgono a lui per deporre nelle sue mani il "il fardello della loro vita, la storia senza storia del loro essere stati".
"Forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria".
Non c'è meta, non c'è terra promessa, ma solo un cammino verso l'inevitabile oblio, "la prima condizione per una buona morte", bisogna però "svolgere la propria vita sino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti resusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale". |