Quella che sto per raccontare è una storia di fantasia, un sogno bislacco; risulterà infatti evidente a tutte le persone raziocinanti, alla fine della lettura, che una simile avventura non abbia alcuna possibilità di accadere realmente. Ho deciso di ambientarla in centro Italia, in una grotta che si chiama Vorgozzino; non ci sono mai stato, tuttavia mi piace il nome; non so quindi arrivarvi, ma mi dicono si trovi nei pressi del borgo di Scoppieto, in provincia di Terni.
Ho scelto come protagonisti 4 personaggi, due provenienti da Forlì e due dalla città umbra; i loro nomi sono Luca, Luca, Luca e Luca (avevo anticipato l'assurdità degli episodi che mi accingo ad illustrare...). Per comodità a uno darò il compito dell'io narrante, e lo farò assomigliare a me, Gianluca Carboni; l'altro Romagnolo avrà le sembianze di "Dentino", ovvero Gian Luca Lundi. Mi servono poi un capo spedizione, una figura carismatica, abile e credibile, e per crearla mi ispirerò al ternano Luca Budassi, il solo che chiamerò semplicemente Luca, per rispetto del ruolo (e della prestanza muscolare...), e infine qualcuno sul quale per vari motivi incentrare quella che mi auguro possa diventare un'inquietante fiaba a carattere speleologico da narrare la notte davanti a un falò agli increduli e trepidanti fanciulli appena usciti da un corso: lo disegnerò simile a Gianluca, un simpaticissimo ragazzo umbro che non vedo da tempo e del quale non ricordo il cognome, ma che a tutti era noto come Lucone a causa della sua poderosa corporatura. Mi perdoneranno gli amici coinvolti perché capiranno che uno scrittore deve necessariamente prendere spunti dalla realtà, e lo fa osservando le persone che apprezza, quelle interessanti... e poi, sarà così chiaro il ricorso all'immaginazione che la loro dignità non risulterà in ogni caso compromessa.
La leggenda di Luca, Luca, Luca e Luca (o degli spettri della voragine del Vorgozzino)
Mi chiamo Luca. Passai a prendere Luca "Dentino" alle 5 del mattino di una domenica di febbraio di qualche anno fa. Sbadigliò e biascicò qualcosa, probabilmente si lamentò dell'ennesima alzataccia. Dormimmo tutto il viaggio, ognuno di noi due era convinto che guidasse l'altro, e grazie al fatto che la strada fra Forlì e Terni è tutta dritta e in discesa arrivammo puntuali all'appuntamento con Luca e "Lucone". Con loro erano altri ragazzi, ma non ricordo precisamente di chi si trattasse, forse di Vittorio, forse di Nilio, o di Fabrizio, o di Giorgio (nota dello scrittore: i nomi sono inventati per cui è inutile cercare di identificarli con speleologi umbri realmente esistenti).
Superammo il borgo di Scoppieto e una sterrata ci portò a due passi dall'ingresso delle grotta del Vorgozzino. I più veloci a preparsi partirono lungo il breve sentiero che attraversa un boschetto e termina nella piccola dolina che sprofonda ai lati di un campo; restammo indietro io, Dentino e Luca. Fu quest'ultimo, il capospedizione, a guidarci qualche attimo dopo: riuscimmo a perderci. 300, 400 metri al massimo di cammino, eppure impiegammo 20 minuti per raggiungere i colleghi, uno dei quali ridacchiando affermò: "Ma come hai fatto a confonderti anche questa volta? Bastava seguire la traccia..." "Mo' ce sono", rispose Luca, "numme sbajo più... annamo, che se fa tardi!"
Un saltino a cielo aperto di neppure 10 metri porta a una galleria inclinata, pochi passi in questa e il pavimento scompare: il grande, splendido pozzo che si ha di fronte è profondo 90 metri e presenta un ampio terrazzo dopo i primi 40 (conviene concatenare tutte le corde, partendo dall'esterno). Nella parete del suo tratto inferiore si apre una nicchia che permette di accedere alle fangose, brevi gallerie Orvieto. Dalla base, vagamente rettangolare, lunga una decina di metri, ricoperta di detriti, è invece possibile passare attraverso un frattura e scendere, dopo un salto di 13 metri, al sifoncino del fondo Perugia (-123m), oppure risalire per 15 metri circa (corda fissa) fino a una finestra e da lì calarsi per 20 toccando così un ulteriore fondo cieco. Tutto qui. Si riesce a visitare interamente la voragine in qualche ora.
Luca approntò un armo spettacolare, particolarmente aereo ed elegante. Vittorio affrontò il pozzo, poi lo fecero un ragazzo e una ragazza, lentamente, d'altronde erano ex-corsisti, quindi andò Luca stesso. Attendevamo il nostro turno io, Dentino, Lucone, anche lui appena uscito dal corso, e altri 3 o 4 speleologi che un'oretta dopo, visto i tempi e l'andazzo, rinunciarono all'escursione optando per un giretto a piedi nei colli circostanti. Fu la volta di Lucone: la sua simpatia, fuori dal comune, era pari all'impegno e alla passione che ci metteva, ma anche alle sue dimensioni, realmente notevoli, forse eccessive per una attività come la nostra, per un salto di quasi 100 metri. Passarono i minuti, e diventarono quasi un'ora. Dentino ed io non riuscivamo a capire cosa stesse succedendo, ma ad ogni nostro richiamo veniva risposto dall'abisso oscuro di aspettare ancora un po'. Finalmente, dopo mezzogiorno, qualcuno comunicò urlando che potevamo partire. Si calò Dentino, di seguito lo feci io.
Fu una sorpresa ritrovare tutti nel terrazzo intermedio: il ragazzo e la ragazza non volevano proseguire, Vittorio era risalito per portarli fuori, Luca stava scendendo verso il fondo boffonchiando maledizioni, Lucone si stava riposando e il placido Dentino raccontando di quella volta che era stato al campo base della spluga della Preta. Di nuovo fu il momento di Lucone, di nuovo passarono i minuti, si sommarono, dieci, venti, trenta... calandosi il suo problema era il discensore col freno, la fatica che faceva per provare a manovrarlo correttamente. Quando mi gridò che la corda era libera, la sua voce mi parve provenire da vicino. Lasciai Dentino, che stava terminando la narrazione all'ultimo dei personaggi in uscita, montai i miei attrezzi e partii. Rimasi stupefatto quando, dopo una decina di metri, incontrai Lucone che, per riposarsi, era entrato nell'anfratto della parete che permette di accedere a un ramo laterale e aveva lasciato la corda, si era insomma slegato in quel minuscolo spazio, ad almeno 30 metri di altezza! Chiesi spiegazioni, valutai come metterlo in sicura, quindi andai giù velocemente. Arrivò Dentino e dopo quasi un'ora l'impavido, tenace Lucone.
Luca, per riguadagnare qualche minuto, aveva già armato il salto che precede il sifone terminale, per cui toccammo il fondo e tornammo in un lampo alla base del grande pozzo. Sembrava che le motivazioni per ulteriori ritardi fossero esaurite, anche se io qualche dubbio l'avevo, per cui l'autoritario capospedizione decise di fare una rapida puntata nel secondo fondo, quello a fianco della grande verticale: affrontò la risalita con una velocità tale che parve volare e da sopra, ad una quindicina di metri circa d'altezza ordinò a noi tre di sbrigarci, nel frattempo avrebbe sistemato una corda nell'ultimo pozzo, a pochi passi da dove ci stava chiamando. Mi accucciai in un angolo e addentai un gigantesco panino col prosciutto, osservando Dentino che stava salendo lungo la parete verso la finestra dalla quale giungevano i ruggiti di Luca. Ero a metà del "montanaro" imbottito quando Lucone si attaccò alla corda. Fece una pompata, una seconda, si riposò, poi ne fece altre due e più o meno a 3 metri d'altezza disse: "Sono sfinito, non ce la faccio più, preferisco scendere". Non commentai, solamente pensai al pozzo da 90 che ci separava dall'uscita, guardai Lucone che stava sostituendo il discensore a maniglia e bloccante ventrale, e mangiai con attenzione ciò che restava della pagnotta ritenendo che presto avrei potuto rimpiangere un'eventuale crosta sciupata. Raggiunsi Luca e Dentino, scherzai con loro manifestando qualche preoccupazione sul rispetto del programma che prevedeva una cena in trattoria, quindi retrocedemmo e in quattro ci trovammo di fronte alla corda che penzolava da un punto lontanissimo, che ci avrebbe permesso di uscire, un giorno o l'altro!
Decidemmo che ci saremmo aspettati nel terrazzino intermedio; partì Luca con due sacchi, poi Dentino con uno, quindi Lucone col suo: l'inguaribile ottimismo gli aveva suggerito di tenere per sè il più pesante! Stavo rimuginando se dormicchiare o chiacchierare con Lucone per incoraggiarlo, o distrarlo, quando lo vidi arrestarsi a 5 metri d'altezza; da giù sentivo il suo ansimare. Fece un movimento brusco e qualcosa mi cadde vicino facendo uno strano rumore: tititing tintinting...
Nella fioca luce, fra i sassi, non distinguevo il piccolo oggetto e chiesi: "Ti è caduto qualcosa. Cos'era? "Ah, niente", rispose il mio ingombrante amico, "è solo un pezzo dell'imbrago. Si è rotto". "Oh, cazzo...", esclamai a voce alta. "Cosa faccio? Devo preoccuparmi?" "No, Lucone, assolutamente no. Non serve l'imbrago, lo mettiamo solo per tenere su i pantaloni!" Trovai la fibia di metallo, si era sfilata dalla fascia, evidentemente tesissima, che cingeva una gamba. "Monto il discensore e scendo". "Ok, ho recuperato il pezzo, vieni giù che provo a risistemarlo". Prese il discensore, lo legò, staccò il kroll e quasi si ribaltò: "Accidenti, l'ho lasciata troppo in alto, sono in tiro sulla maniglia!" "Tranquillo, Lucone, aggancia di nuovo il ventrale, abbassa la maniglia e ripeti l'operazione". Tentò una, due, tre volte, poi si lasciò andare e restò appeso a corpo morto, quasi orizzontale, la schiena leggermente arcuata e le gambe in posizione appena più elevata delle spalle e della testa: "E' troppo in alto, non riesco a usare il pedale, sono sfinito..." "Bene, tutte buone notizie", provai a sdrammatizzare, "calmati ora, riposati e fai attenzione a non peggiorare la situazione. Alza un po' la testa". Mentre parlavo stavo valutando ogni possibile rimedio: "Ora afferro la corda e mi sposto. Tu solleva il tuo sacco, staccatelo da dosso e metti il suo moschettone nella corda in modo che io possa calarlo fin giù". Il macigno partì a 100 km/h, tuttavia riuscii a frenarlo inclinando la corda e ad evitare così che mi abbattesse come un birillo. Dovevo a quel punto aiutare Lucone, ma prima di azzardare un disperato soccorso uomo a uomo (lui pesava quasi il doppio di me) volli provare un curioso escamotage: "Hai detto che non arrivi al pedale con le gambe. Riposati ancora un po', io intanto faccio nel capo della corda un nodo "a orecchie di coniglio", di quelli con due asole; poi tu lo recuperi e lo metti a cavallo del pedale, così in pratica lo allunghi. Dopo riproverai ad attaccare il kroll. E' tutto chiaro?" Lucone non era uno speleologo esperto, ma un ragazzo particolarmente sveglio sì, e applicò il fantasioso metodo alla perfezione. Nel frattempo dall'alto giunse un boato, la voce di Luca: "Tutto a posto laggiù?" "Sì", risposi, "finiamo la partita a carte e arriviamo".
"Ce l'ho fatta, ha funzionato, ho montato il kroll". "Bene. Cala la maniglia ora, il più possibile. Fai scendere il capo della corda in modo che possa raggiungerti se sbagli nuovamente, e ripeti l'operazione di sgancio, con calma". Questa volta Lucone riuscì a calarsi; rimase steso a terra, distrutto dalla fatica. Era rosso come un pomodoro e sudato in modo impressionate. Sistemai il suo imbrago e attesi che si riprendesse; passò almeno un quarto d'ora. "Come va? Te la senti di ripartire?", gli domandai. Senza rispondere si alzò e attaccò di nuovo i suoi bloccanti alla corda. "Non avere fretta, fai un paio di pompate e riposati, poi ancora due e fermati di nuovo; non arrivare a non poterne più. Ci vediamo fuori", lo incoraggiai. "Mi dispiace farti aspettare tanto, qua sotto", rispose. "Nessun problema; ho mangiato, ora faccio un "pisolo" e appena liberi la corda ti raggiungo. Lascia giù il sacco, lo porto io". Mi accucciai in una minuscola rientranza capace di ripararmi in parte dalle pietruzze che ogni tanto precipitavano dall'alto, e mi addormentai. Non so quanto tempo fosse passato quando mi svegliarono le grida di Luca: "Aho, vieni su o no?" Attaccai tramite un cordino i due micidiali sacchi all'imbrago e iniziai a salire, lentamente. Nell'anfratto d'accesso al ramo laterale, dove in discesa avevo notato Lucone slegato, trovai questa volta Luca che, aspettandomi, si era pesantemente assopito... russava! "Perché non venivi? Cosa è successo? Sarà notte ormai...", mitragliò appena lo scossi. "Niente, ero andato a fare un giro..." "Immagino, ce sta un sacco de' roba da vede' laggiù!"
Nel terrazzino intermedio incontrai Dentino, dolorante, rannicchiato in un angolo e coperto col telo termico; dormiva con gli occhi aperti, appannati, ed era pallido, pareva pietrificato. "Hai un piacevole aspetto! Come va?" "Lascia perdere", rispose, "ho la schiena e una spalla a pezzi". "Colpa dell'umidità, della posizione. Da quante ore sei qui?" "Molte, ma è Lucone che mi ha frantumato". "In che senso?", gli domandai. "Si era bloccato in quel frazionamento, dove sei tu adesso. Non riusciva a passare, a sganciarsi, allora mi sono avvicinato e gli ho insegnato a fare un paranco con un cordino. Ha staccato la longe, poi però si è lasciato andare e mi è arrivato addosso pendolando sulla corda. Mi ha schiacciato alla parete, ho fatto appena in tempo a voltarmi. E' stato terribile, ora so cosa prova una bacherozzo quando uno scarpone gli monta sopra!" "E Lucone come sta? Era molto stanco, dov'è? "Boh! Gli ho detto di uscire, di raggiungere gli altri e aspettarci all'auto, ma è successo un paio di ore fa". 30 minuti dopo eravamo fuori tutti e tre, con 6 sacchi. In cielo splendevano alcune stelle, ma non si vedeva la luna; l'aria particolarmente frizzante asciugò presto il nostro sudore, la bassa temperatura quasi lo tramutò in ghiaccio. "Annamo, che se brina. Ho 'na fame che me magno 'na pecora!" "Facciamo la strada dell'andata?", chiesi. "No, famo prima per li alberi..."
Attraversammo un campo, poi rasentammo quello successivo, salendo e scendendo. Era passata mezz'ora quando finalmente arrivammo a un tratturo. Era buio pesto e non scorgevo particolari, ma avevo la netta sensazione di non essere mai stato in quel posto. "Luca, mi sa che ci siamo persi ancora. Dovevano essere 5 minuti, dovevamo trovare un sentiero nel bosco, ma io non ho visto ne' l'uno ne' l'altro... a dire il vero avremo incontrato un paio di alberi in tutto!" "Aho, che te posso di', numme ricordo!" Continuammo a camminare, a lungo, fino a un incrocio. "E adesso?", domandò Dentino, interrompendo la narrazione delle sue avventure in Preta. "Ho un'idea", sillabò Luca, stranamente in lingua italiana, "andiamo di là, dove sicuramente ci sono case, bussiamo a una porta e chiediamo dov'è il Vorgozzino". "Bella!", evitai di esporre i miei dubbi su come potesse essere sicuro che di là, dove indicava lui, ci fossero case che in realtà non si vedevano, e lo seguii. Dentino ricominciò a raccontare.
Apparve quasi all'improvviso quello che pareva un capannone; ci avvicinammo speranzosi e scoprimmo che si trattava di un interessante sito archeologico. Erano probabilmente le basi dei muri di una villa romana, o di una fattoria, ricoperti da una grande tettoia. "Bene", fui il primo a parlare, "in un punto significativo siamo arrivati. Questa è una zona turistica importante, hai idea di dove si trovi?" "Mai visto niente di simile", rispose il capo, "comunque proseguiamo per la strada, prima o poi arriveremo al paese". "Se è quello laggiù", indicai alcune lontanissime luci, le sole presenti, "per domani mattina potremmo esserci, sempre che non ci sia il lago di Corbara nel mezzo!"
La storia finisce qui perché nessuno li vide più. I vecchi del posto narrano che nelle notti invernali su quei colli si sentano delle voci, qualche imprecazione in dialetto ternano e risate scomposte, e si scorgano lucine muoversi, avanti e indietro, senza sosta, senza senso. Se vi trovate a passare di là, vincendo il timore per gli spettri, rumorosi ma in questo caso innocui, potreste anche incontrarli; è facile riconoscerli: hanno tute rosse, caschi sulla testa (vuota...) e sacchi gialli sulla schiena (tanti...). Quello davanti, più grosso, procede rapido spinto dalla fame, brontolando ininterrottamente; i due che arrancano dietro sussurrano: uno continua imperterrito a raccontare di quando arrivò nei pressi del fondo della Preta, l'altro ridacchia fra sè e ripete in eterno: "Lo sapevo che mi fregava di nuovo. Ci siamo persi sul monte Cucco, a Frasassi ha addirittura sbagliato grotta e una volta all'interno ha insistito convinto che si trattasse di quella giusta, nonostante ci fosse stato un mese prima... dovevo immaginarlo che anche oggi finiva così... la prossima però..." L'ultimo dei tre, tuttavia, è il solo con l'espressione relativamente soddisfatta perché alla base del pozzo s'era mangiato una pagnotta da mezzo chilo, imbottita d'affettato. Se invece vi intimorissero creature di questo tipo e ugualmente foste costretti ad aggirarvi al buio in quella zona, allora correte in fretta all'ingresso della voragine del Vorgozzino perché quello è l'unico posto in cui Luca, il capospedizione, mai riuscirà a condurre gli sventurati compagni.
Per chi poi non gradisse le storie di fantasmi, ho preparato un finale alternativo: i tre camminavano da più di un'ora, probabilmente sempre nei dintorni, quando a uno venne l'idea di mettersi a urlare come un pazzo, nel disperato tentativo di attirare l'attenzione degli speleologi già arrivati alle auto. Lo fece nonostante lo scetticismo dei due amici, i quali reputavano impossibile che gli altri riuscissero a sentire gli strepiti a causa della distanza alla quale certamente si trovavano, o addirittura probabile che gli stessi fossero da tempo ad aspettarli in trattoria. Invece lampeggiarono nella notte, lontano, i fari di una jeep. Ci vollero 20 minuti di marcia per raggiungerli. Vittorio e Lucone, consapevoli della balordaggine dei tre dispersi, avevano opportunamente atteso, dormicchiando, il loro ritorno. Niente spettri, quindi, ma ciò significherebbe che i 4 Luca, potenzialmente dannosi, sono reali e tuttora in circolazione.
"La partenza"
"L'azione"
"L'azione"
"L'attesa"
"L'attesa"
"L'azione"
"L'attesa"
"L'attesa"
"Il secondo tratto del P90"
"L'azione"
"Finalmente fuori!" |