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Le galline di Emma
Un manto bianchissimo ricopriva i colli vicini ed era quasi irreale il contrasto col cielo azzurro privo di nubi. Pareva l'ingenuo disegno di un bimbo, troppo definito, troppo semplice, senza sfumature e particolari; di certo un bimbo vi avrebbe però aggiunto una casetta squadrata col tetto rosso, un pupazzo di neve e un albero spettrale con rami secchi a graffiare l'immobile superficie dove solo un sole giallo incapace di emanare calore percepibile rompeva l'uniformità. La mancanza di vento e la rigida temperatura ci convinsero che era finalmente giunto il momento per una passeggiata con le ciaspole, dopo tanti giorni di tempo orribile. Non saremmo andati lontano, al massimo potevamo provare a oltrepassare le colline perché le ore di luce d'inverno sono poche e noi già ne avevamo sciupate alcune dormendo, convinti del perdurare delle bufere. Capita che ci si abitui a brutte condizioni, di vario tipo, finendo per credere che mai più muteranno.
In nemmeno mezz'ora arrivammo all'imbocco di una valletta secondaria, di quelle comuni nell'Appennino, spesso abbandonate dalle genti di montagna e dimenticate dagli abitanti di pianura e quindi inaspettatamente preziose se ciò che si cerca è un paesaggio poetico, malinconico, capace con colori e suoni naturali di regalare sensazioni profonde. Entrambi conoscevamo la zona perché vi si passa a volte, raramente, percorrendo uno stradello in parte sterrato, lungo vari chilometri, che collega due importanti paesi. E' un itinerario alternativo che obbliga le auto a qualche sforzo supplementare e i viaggiatori a perdere quasi un'ora nel salire e scendere mille dossi, nell'aggirarli come si faceva un tempo; in compenso, più o meno a metà della vecchia pista, si incontra un borghetto con qualche casa e, soprattutto, una rinomata trattoria. Nel minuscolo centro stabilmente abitato c'è anche una chiesa, e altre due si trovano isolate nella valle. Ci aspettavamo la presenza di molta neve, ma non di imbatterci in un muro alto quasi un metro che ci sbarrasse il passo già all'incrocio con la provinciale liberata da uno spazzaneve disinteressato alla diramazione poco frequentata. Lasciammo l'auto e partimmo a piedi convinti che in un tale ambiente ostile difficilmente saremmo riusciti a individuare il sentiero battuto nei pressi del torrente; il percorso stradale sul quale faticosamente stavamo avanzando si mantiene infatti ben al di sopra del fiumiciattolo e quindi distante dall'antica traccia che serpeggia vicino a quest'ultimo toccando i ruderi di almeno quattro casolari abbandonati negli anni '60, quelli del boom economico. La cartina indicava che davanti alla prima pieve campestre un tratturo ci avrebbe portato al corso d'acqua, nel punto in cui era d'uso guadarlo, ma attorno a noi c'era ovunque neve immacolata, senza un riferimento utile, un fosso, una fila d'alberi, una recinzione a segnalarci la via, così decidemmo di procedere a caso supponendo, sperando di riuscire poi a mantenere la giusta direzione nel momento in cui avessimo intuito la presenza del sentiero che per certo si trovava sul versante opposto e mai si allontanava dalla sponda. Ci sorprese però l'ampiezza dell'alveo: non poteva essere considerato un fiume, ma un torrente dalla portata considerevole senza dubbio sì. E ci sorprese il ghiaccio che trasparente, compatto, infido ricopriva ogni pietra. Tentammo in vari modi l'attraversamento, più a valle o a monte, studiando fantasiose soluzioni, infine sfruttammo un grosso tronco che si rivelò marcio e inconsistente tanto da farmi cadere sgraziatamente in acqua; fu pirotecnico l'effetto delle schegge di legno e di ghiaccio che partirono verso ogni direzione, amplificato dai rumori secchi di un sostegno che si schianta e una lastra che si frantuma, da colorite imprecazioni e grasse risate. Schizzai in un attimo sulla riva opposta, non troppo bagnato, ma con la fastidiosa consapevolezza d'aver a lungo ragionato per ideare un'idiozia.
Procedere sulla neve sarebbe risultato a quel punto più semplice del previsto perché il cammino era quasi in piano, poco accidentato, e la candida superficie relativamente compatta, se un suo consistente strato non avesse appesantito alberelli e cespugli che si erano in tal modo distesi mascherando tutti i varchi: occorrevano minuti per capire in che punto passare, e altri per spostare frasche cristallizzate dal gelo, retrocedere, provare nuovamente. Rovistavo fra rami in apparenza morti, con qualche spina, sconfortato, sopportando stoicamente il blaterare e le risate isolate dell'amico che, a due passi da me, ripensava al mio sconsiderato guado pregustando il momento in cui a interlocutori scherzosi e impiccioni l'avrebbe raccontato. Qualcuno o qualcosa decise di premiare la mia tenacia appena prima che l'imperturbabile natura riuscisse a dissolverla totalmente: apparve un breve stradello e in fondo a questo un casolare abbandonato, in un luogo incantevole. Ci avvicinammo, finalmente entrambi silenziosi, alla porta di legno che ancora stava in equilibrio agganciata a un grosso cardine arrugginito dando così all'edificio principale un aspetto vagamente spettrale. L'interno era inagibile perché mancava il pavimento, tristemente crollato chissà quando nell'ambiente inferiore; in alto del soffitto restavano orizzontali, parallele, inutili travi portanti. Le finestre avevano cornici in pietra arenaria e alcune ante di un colore antico, delicato, quasi verde e quasi azzurro. Mucchi di macerie alla base della facciata erano coperti di neve; si intravedevano lì sotto un pezzo di grondaia metallica e un paio di tegole rossastre, si immaginavano lì sotto serpenti e altri piccoli animali selvatici in letargo, tranquilli in un riparo tanto confortevole e sicuro. Un muro laterale era in parte franato rendendo visibile dall'esterno una grande camera: notammo l'intonaco alle pareti con una graziosa decorazione geometrica di vernice rosa, e un pittoresco camino a mezz'aria che sembrava appeso solo alla canna fumaria. In basso, dov'era precipitato il pavimento, si scorgeva uno spazio vuoto impossibile però da determinare perché buio, ingombro di pietre e travi, nascosto dalle fronde di un rampicante che era entrato dai pertugi disponibili, procurandoseli anche e ampliandoli, contribuendo così allo sfacelo e contemporaneamente mantenendo in piedi i ruderi con la sua presa. Nell'angolo lontano, a destra, partiva la scala che portava al piano superiore, certamente pronto a polverizzarsi al primo passo di un incauto visitatore. La costruzione accanto, una stalla con granaio, legnaia e deposito per gli attrezzi, aveva belle finestrelle di mattoni disposti a formare un elegante gioco di luce e ombra, quasi un traforo prezioso, una seconda, curiosa, inaspettata concessione all'estetica, dopo i disegni sul muro della stanza col camino sospeso, in un luogo e in un periodo nei quali la ricerca del fine pratico di ogni cosa e azione era inevitabile per riuscire a sopravvivere.
Proseguimmo rinfrancati dal cielo terso e dalla prospettiva di incontrare altre suggestive testimonianze di un passato lontano anni luce pur se prossimo; il freddo, reso pungente dalla conformazione della valle che costringeva a camminare spesso all'ombra, sconsigliava di fermarsi a lungo. Scoprimmo che i casolari sorgevano nei punti in cui il torrente, e con esso i crinali, cambiava momentaneamente direzione permettendo al sole di toccare il terreno anche nella stagione in cui restava basso e faticava quindi a elevarsi sui colli: a una larga ansa corrispondeva a volte un pianoro e risultava evidente che lì il manto nevoso aveva uno spessore minore e una crosta più fragile; appena a lato, non distante dal corso d'acqua, ma neppure sulla sua riva, capitava che ci fosse l'abitazione. Ne superammo altre due, la prima ricoperta interamente da rovi, piccola rispetto alla precedente e in posizione svantaggiata, o almeno così pareva a causa della fitta boscaglia di arbusti che la circondava e dell'aspetto del terreno, aspro e roccioso, e la seconda addossata a un masso che di certo contribuiva a sostenerla. Erano in definitiva pochi resti malinconici destinati all'oblio, desolate collinette di pietre e sterpaglie eredità di generazioni di genti umili che nulla hanno lasciato scritto nella storia, eppure che hanno lavorato duramente, costruito, dissodato, coltivato, allevato, trovato il tempo di decorare graziose finestrelle, che hanno sofferto e voluto bene, in modo diverso da noi più progrediti, sensibili, viziati e perciò spesso più banali.
Al rumore continuo dell'acqua che scorreva quasi sempre sotto lastre di ghiaccio, si univa quello occasionale dei volatili che al nostro passaggio decollavano intimoriti da rametti e cespugli; erano incredibilmente gonfi a causa del piumaggio cresciuto per proteggerli dal freddo, e alcuni molto golosi di piccole bacche rosse. Mi stupì all'improvviso il secco abbaio di un cane e mi allarmò perché parve troppo vicino: fino a quel momento non avevamo riscontrato alcuna traccia umana sulla neve e nella cartina non risultava la presenza nei pressi di centri o case abitate; avremmo presto incontrato l'ultimo rudere dopo il quale per vari chilometri era disegnata solo la linea blu del torrente, con tante curve, man mano più sottile e lontana dalla strada che da quel punto, se ci fosse stato un sentiero, avremmo potuto raggiungere in un quarto d'ora circa di cammino. Anche là, però, ci saremmo trovati in una zona particolarmente isolata. Era possibile che un escursionista stesse percorrendo il nostro itinerario in direzione opposta, ma piuttosto improbabile perché sarebbe dovuto partire da luoghi fuori mano o esageratamente lontani, soprattutto considerando le pessime condizioni del sentiero; un cane abbandonato, o smarrito, ci sarebbe forse venuto incontro e ci avrebbe facilmente convinto a soccorrerlo, sempre che il suo carattere fosse stato amichevole e l'umore buono... forse avevo male interpretato il verso di un animale selvatico, o immaginazione e distrazione si erano amplificate a vicenda, come spesso mi capita quando girovago in posti remoti e ammalianti, costringendo la mia mente a creare dal nulla, per strapparmi al sogno, un rumore famigliare... "Lo senti quest'odore di legna bruciata" disse il mio compagno, "c'è un camino acceso..." Mi fermai e il profumo gradevole fu evidente per me come per lui, ma io rimasi sconcertato non riuscendo a dare una spiegazione logica al fatto: "Prima... era un cane quello che ha abbaiato?" "No, era un cavallo..." rispose, "ma sei rintronato, hai lasciato il cervello a bagno nel torrente? Certo che era un cane, saremo nei pressi del borgo". "Quale borgo? Qui non c'è nulla e quello di cui parli, con la trattoria che saresti ben contento di trovare ora, è a 4 o 5 chilometri di distanza". "La civiltà sarà lontana, ma a due passi c'è un personaggio più furbo di noi che mette ciocchi di legna in un camino e su una comoda poltrona vi attende davanti la primavera", concluse, e non potei ribattere perché all'intenso aroma si aggiunse una serie di abbai impossibili da fraintendere. Procedemmo per qualche minuto e giungemmo nello slargo che separava la vecchia casa da una capanna in muratura bassa e malridotta. Qualcuno aveva spalato la neve liberando una sottile traccia che univa i due edifici; nel principale la porta era socchiusa e nel pianerottolo sul quale si apriva stazionava un cane dal pelo beige, uniforme, più largo che lungo, che alto. Le chiazze bianche sul muso ne tradivano l'età , di sicuro non giovane, ma i suoi occhi erano estremamente vigili e ci squadravano sospettosi. Teneva le orecchie rizzate, tuttavia essendo queste esageratamente grandi per la sua stazza, non restavano erette, ricadevano anzi dopo aver curvato, dando all'animale un aspetto buffo che toglieva credibilità all'atteggiamento minaccioso. Finse di voler scendere, tuttavia era evidente che non aveva voglia di inzupparsi le zampe nel fangoso vialetto. Anche noi l'osservavamo in silenzio, immobili; io ero colpito soprattutto dal lampioncino acceso sopra all'uscio: non si trattava quindi dell'ultimo rudere come avevo dato per scontato, ma di un casolare abitato raggiunto dalla corrente elettrica. Eppure attorno c'era neve ovunque, alta mezzo metro almeno, intatta anche nella ripida pista d'accesso al luogo che si staccava sul lato dell'aia opposto a quello in cui eravamo sbucati. "Siete arrivati, finalmente!"; sentimmo la voce provenire da dentro, e dopo una decina di secondi si aprì del tutto la porta: apparve una signora anziana. Il cagnolino, in realtà una femmina, si voltò a guardarla e scodinzolò gioioso: aveva fatto il suo dovere, ci aveva tenuti a bada fino al giungere della padrona e ora poteva tornare all'interno, al caldo, cosa che fece con insospettabile rapidità. Leggemmo una grande delusione negli occhi della donna: "Non siete voi... scusate..." "Certo che siamo noi, gentile signora, lo siamo da sempre... buongiorno a lei!" disse il mio bislacco amico provando a farla sorridere. Ci riuscì. "Venite dentro a scaldarvi davanti al fuoco, ragazzi... pensavo fosse venuto un parente con le provviste... da dove arrivate? Sei tutto bagnato, "gagino" (1), finirai per ammalarti..." Aveva notato i capelli chiari che fuoriuscivano dal mio berretto e il risultato nei pantaloni del tuffo nel torrente, era piuttosto lucida nonostante l'evidente età avanzata e il suo indubbio aspetto bizzarro dovuto all'enorme pastrano nero, senza tempo, che la infagottava totalmente, agli scarponi grandi quanto i miei e alla cuffia di lana dai mille colori che nel suo magro volto lasciava liberi solo naso e bocca.
Il passo che facemmo per entrare in quella cucina illuminata fiocamente ci scaraventò indietro di almeno mezzo secolo. Ogni cosa era al proprio posto, ma il posto nel suo insieme esisteva in uno spazio temporale sbagliato: era illogico il decrepito filo attaccato all'altissimo soffitto, che terminava con una lampadina sormontata da un cerchio di vetro sbrecciato con alcune macchie rosse, verdi e blu che chissà da quando non raffiguravano più fiori e frutti; erano illogici il lavandino in pietra in un angolo con poche, vecchie stoviglie divise fra un rustico piano di lavoro e un pensile attaccato al muro, e la stufa a legna sulla quale borbottava un pentolino pieno d'acqua, la scura credenza di legno con due vetrine nelle quali spiccavano, incastrate ai bordi, varie cartoline e fotografie, quasi tutte in bianco e nero, e il calendario e il crocifisso persi in una parete troppo ampia, spoglia, e l'immenso camino che donava all'ambiente un dolcissimo tepore e una luce rossastra, e disegnava da ogni oggetto lunghe ombre. Era illogico che Emma a quasi ottant'anni vivesse stabilmente lì, da sola. Pensai ai racconti di mia nonna, in cui descriveva la sua prima casa, col pavimento in mattoni grezzi e una sola grande stanza quadrata, la cassapanca per i vestiti e la biancheria, la madia per tutto il resto, e le candele, l'acqua del pozzo, il catino per lavarsi, e la latrina all'aperto, e che terminavano sempre con la frase, allusiva soprattutto al mio modo svogliato di mangiare, al poco rispetto mostrato per il cibo: "c vliva un pocc ad Resistenza per ste burdel" (2); con parole elementari mi stava parlando della lotta partigiana, della fame patita durante la guerra, dei sacrifici nel periodo immediatamente successivo, della vita scandita dai ritmi naturali delle stagioni e finalizzata alla soddisfazione delle esigenze basilari, di modestia e dignità, di decorosa semplicità, le stesse caratteristiche delle quali era permeato quell'irreale casolare cristallizzato da decenni con tutto ciò che conteneva. Su un divano ricoperto da un lenzuolo dormicchiava Briciola, la cagnetta che oramai tranquilla ci ignorava, e vicino al fuoco, su una stuoia lo facevano due grossi gatti bianchi e grigi, altezzosi perché rifiutavano di toccarsi pur essendo appallottolati a pochi centimetri l'uno dall'altro. Ci accomodammo su sedie impagliate che stavano attorno al massiccio tavolo; io mi voltai appena per allungare le gambe verso il camino ed entrambi i gatti aprirono momentaneamente gli occhi mostrando di essere ben più vigili di quanto il loro placido aspetto facesse credere. Emma abitava da sempre in quella casa, prima con i genitori e il fratello, poi col marito e non ricordo quanti figli, ma tutti in periodi diversi, e per motivi diversi, se ne erano andati. Si levò lo stravagante paltò, la cuffia di lana liberando i capelli bianchi come la neve, lunghi fino alle spalle, ci preparò un tè e si sedette a tavola con noi; la guardavo silenzioso convinto di sognare, convinto che la mia mente abituata a viaggiare nel tempo mentre le gambe lo facevano nello spazio trasportando il corpo nei boschi, su sentieri e per dirupi, avesse decisamente preso il sopravvento rendendo concreta una figura immaginaria, tangibile un pensiero. Mi confondeva l'atmosfera ipnotica creata dal calore e dal blando danzare delle ombre che seguivano quello più nervoso della fiamma; la brace aveva tutte le possibili tonalità che vanno dal rosso vivo al nero e nell'aria si sentiva, stranamente appena percepibile, l'odore del fumo. Il mio amico conversava cordialmente, a suo agio come se avesse già conosciuto Emma che lo ascoltava e a sua volta raccontava aneddoti; era felice della nostra presenza, credo ne traesse conforto. L'episodio del mio volo nell'acqua divenne in quell'ambiente crepuscolare l'articolato romanzo che avrei sentito narrare altre volte e contribuì a rendere familiare il rapporto instaurato fra di noi. Poi parlò soprattutto lei, a volte stimolata dalla nostra curiosità: le giornate passavano lentamente, ma c'era tanto da fare e la solitudine le pesava un poco solo in inverno. Doveva accudire le galline e i conigli, sistemare la casa, curare l'orto che non avevamo visto perché completamente coperto dalla neve, raccogliere l'erba medica nel prato, la legna, anche se la parte faticosa del lavoro era fatta dai parenti e i dai ragazzi del paese che ogni settimana andavano a trovarla portando le provviste, l'unica medicina che usava e i due o tre prodotti che consumava, e raccogliere le more, il radicchio selvatico, il crescione, i fiori di sambuco per preparare lo sciroppo, non i funghi perché non li conosceva. Fino a qualche anno prima saliva lungo il versante opposto della valle e raggiungeva un castagneto dal quale riusciva a tornare con un sacco pieno di marroni che gli bastavano per tutto l'anno; li lessava, ma li faceva anche essiccare mangiandoli in seguito, tenendoli a lungo in bocca per ammorbidirli. E si arrampicava sugli alberi piantati in passato da suo marito, di fianco a casa, sul ciliegio, il fico, il pero, adesso però poteva solo raccattare per terra le nocciole e qualche caco, accontentandosi negli altri casi dei frutti che crescevano nei rami più bassi. Aveva lavorato un po' ovunque nei campi lì attorno quando erano coltivati, quando i casolari erano abitati; ci vivevano almeno una decina di famiglie, quasi tutte imparentate e molto numerose, e prima della guerra assieme agli altri bambini andava a scuola in paese, a piedi: partiva alle 6 e nel pomeriggio rientrava a casa dove aiutava la madre. In seguito suo padre le regalò una bicicletta e divenne più facile percorrere la dozzina di chilometri che la separavano dalla piazza del mercato dove vendeva la frutta e la verdura, e le uova fresche; la usava anche per recarsi in chiesa nei giorni festivi, non quella grande all'imbocco della valle, ma l'antica pieve che sorge nei pressi del borghetto con la trattoria. Era faticoso spingerla in salita fino alla strada, però quando scendeva "andava come il vento!" Suo marito era morto quasi trent'anni prima e da allora viveva sola, tuttavia non considerava di esserlo, non si annoiava e non aveva paura perché la rincuorava la piccola, vecchia Briciola, e prima di lei l'altra Briciola, e l'altra ancora. "Emma, non saresti più tranquilla se abitassi in città, da un tuo figlio?" chiese il mio amico. "Non c'è spazio per me, e poi darei fastidio. Io sono sempre stata qui e voglio morire in questa casa, dove sono morti i miei genitori e il mio Tonio. Cosa potrei fare di meglio in un altro luogo? Non esistono posti migliori, qui conosco tutte le pietre e i cespugli, i rumori e gli odori, ogni angolo mi ricorda qualcosa e certe notti vengono a trovarmi i miei cari. Stanno bene adesso, sapete, hanno smesso di tribolare e preoccuparsi, mi aspettano, ma dicono di non avere fretta...", e sorrise. "Non hai il telefono, sei isolata dal mondo, non sai cosa succede..." "Ho la radiolina, c'è anche la messa, però si sono scaricate le pile... mi portano ciò che serve, una volta uno e una volta l'altro, e mi dicono ciò che serve... abbiamo bisogno di poco. Quando la sera fa buio e metto il catenaccio sono in casa mia, mi siedo vicino al fuoco e prego, penso a tutti loro, ai vivi e ai morti, e mi addormento. Mi rattristo solo quando sogno la cucina piena di persone, con mio padre che bestemmiava perché la faina aveva ammazzato i polli, perché pioveva da giorni e non poteva zappare nel campo... era una brava persona e Dio lo sa che quelle offese non erano rivolte a Lui. Durante la guerra davamo cibo ai partigiani, i fascisti e i tedeschi invece se lo prendevano. Un giorno il babbo capì che il pericolo era grande e ci portò lungo il fiume, verso monte, e ci nascose in una grotticella scavata in un'ansa dall'acqua; ci disse di non fiatare e aspettarlo, poi coprì l'entrata con le frasche. Tornò il giorno dopo, quando oramai eravamo stufi di piangere e tremare. Il capanno faceva ancora fumo, l'avevano bruciato, e si sentiva l'odore degli spari, si contavano i buchi dei proiettili sui muri e nei mobili dei nonni, tutti rotti. La mamma metteva a posto pregando e il babbo lavorava bestemmiando, non poteva sopportare la vista degli animali morti inutilmente... almeno li avessero rubati... Tonio invece era un giovane partigiano, bello e alto, veniva dal nord..." Ogni ricordo ne evocava altri ed Emma li lasciava fluire liberamente, erano come l'acqua di un placido canale che aldilà di un argine crollato dilaga in un piano golenale; in un paio d'ore ci raccontò mille storie che forse i suoi parenti si erano stancati di sentire nel tempo limitato che passavano lì, e lei di ripetere a loro che avevano smesso di ascoltare. Pochi altri capitavano casualmente a casa sua, e mai d'inverno, e quasi mai si fermavano. "Voi invece assomigliate ai ragazzi di una volta, pazienti e gentili con gli anziani, anche con quelli noiosi, che ripetono sempre le stesse cose..." scherzò alludendo a sé. Dai suoi occhi limpidi traspariva però un'inquietudine, sempre più evidente man mano che si avvicinava il momento dell'inevitabile commiato; pareva che non trovasse le parole per dire qualcosa d'importante, quasi che le mancasse il coraggio di farlo. Si trattava di imbarazzo e fu il amico, d'altronde era lui ad alimentare la conversazione, a permetterle di liberarsi del peso con la domanda giusta, ovvia e diretta: "Sei una persona splendida, Emma, ed è bellissimo stare qui a chiacchierare con te davanti al camino, tuttavia... perché non mi dici cosa c'è che non va?" Lei rimase zitta per un attimo, poi provò ingenuamente a cambiare discorso rivolgendosi a me, infine pur tentennando, si lasciò sfuggire ciò che la angosciava: "Parli poco, "gagino", hai ancora freddo? Ti sei asciugato? Vorrei offrirvi qualcosa da mangiare, ma non ho nulla... dovevano venire alcuni giorni fa, forse non ci sono riusciti per la neve... le galline moriranno di fame... qualcosa per me lo trovo sempre, mi basta un brodino e un pezzo di pane secco, ma le galline sono a digiuno dall'altro ieri..." "Eccoci qui, a tua completa disposizione", fu forse la mia prima affermazione concreta in quella cucina sospesa fra sogno e realtà, "cosa vuoi che facciamo?" "Se vi do il numero di telefono di mio nipote, quando arriverete a casa potreste avvertirlo che ho bisogno di alcune cose?" Guardai il mio amico e lo anticipai: "provaci, ma vedrai che nella valle il cellulare non prende, comunque faremo altri tentativi lungo la strada. Piuttosto, se da qui vi saliamo, te la senti poi di camminare per qualche chilometro fino alla trattoria dove sicuramente troveremo un telefono pubblico? Considera che ci vorranno quasi due ore per arrivare, e almeno quattro per tornare all'auto, col buio... ho un paio di torce e siamo attrezzati se aumenta il freddo". "Che domanda fai? Non c'è trattoria al mondo dove non sia in grado di arrivare! Bisogna partire subito" rispose prontamente lui. Emma, la timidissima Emma, provò a farci cambiare idea: "Non c'è bisogno, non dovete disturbarvi ad andare fin lassù, posso aspettare anche domani..." "No, dal borghetto riusciremo a valutare meglio la situazione, la disponibilità a muoversi. E' facile che aldilà dello stesso e del valico la strada sia stata liberata, e che nel ristorante abbiano delle scorte. Se tuo nipote o altri avessero problemi che gli impediscono di raggiungerti subito, caricheremo là tutto il possibile e te lo porteremo a piedi al ritorno". Lei prese un paio di fogli e l'unica penna dalla credenza; da uno copiò nell'altro il numero di telefono, cifre enormi terminanti con riccioli che avevo visto solamente nel quaderno dove mia nonna tanti anni prima annotava le spese e i risparmi. Me lo porse, piangendo delicatamente. Finsi di non accorgermi della sua commozione: "Quali sono le cose di cui hai maggior bisogno?" "Il mangime per le galline, una pila grande per la radio..." "E per te?" "Non preoccupatevi per me, mi basta ciò che ho... se ritardano molto, un pacco di minestrina... due... un dado per il brodo..." La salutammo. Ci abbracciò e baciò, mi accarezzò i capelli. Voleva accompagnarci fino al ponticello sul torrente, ma la convincemmo a desistere e partimmo. Non la incontrai più.
Sulla strada potemmo calzare con continuità le ciaspole, non c'erano infatti cespugli e pietre a ostacolare la progressione e la pendenza risultava quasi nulla. Avanzavamo veloci e silenziosi nelle prime ore di un bellissimo pomeriggio invernale; il cielo era ancora azzurro e il sole rotondo e luminoso, ma i suoi raggi troppo inclinati riuscivano a regalarci solo luce. Lo strato di neve superava forse il mezzo metro di spessore, era intatto, ovattava e abbagliava, narcotizzava: nessuno era passato da lì negli ultimi giorni. "Strana storia, vero? Mi pareva di stare con mia nonna, anche lei ha vissuto a lungo in campagna, ma non così isolata. Era molto anziana quando venne ad abitare da noi; sembrava contenta di averci attorno. Poi si ammalò, poco dopo, si spense come una candela esaurita..." Non sapevo se il mio compagno d'avventura stesse parlando con me o fra sé, a voce alta, il suo discorso fece comunque franare la barriera che avevo eretto per arginare le mie emozioni: "Sì, hai ragione, strana la storia e contrastanti le sensazioni: oggi siamo stati tutti e tre fortunati, e soprattutto noi due a conoscere Emma. Sono felice, però sto provando una terribile amarezza perché la fragilità del suo mondo è evidente, perché il suo destino è segnato e nulla contano storie e sentimenti, coerenza e tenerezza, onestà e umiltà, purezza d'animo e modestia, perché la si lascia in quell'inutile angolo antico con cani, gatti e galline in attesa che si decida a togliere il disturbo, lei e il suo inestimabile tesoro di ricordi. Come è possibile che abbia resistito tanto, e che alla resa dei conti si sia trattato solo di uno sforzo fine a se stesso? E' un errore quella meravigliosa vecchia signora: hai visto... vive senza televisione, senza telefonino, mangia minestrina e pane di una settimana prima ed è soddisfatta, e si preoccupa per la salute dei suoi animali prima che per la sua, e non aveva il coraggio di chiederci un semplicissimo favore perché temeva di importunarci, di essere un peso per noi, e si vergognava perché non aveva due biscotti da offrirci col tè, ed era commossa fino a piangere per il poco tempo che le stiamo dedicando, come se fosse lei, e non noi, ad avere l'obbligo di essere riconoscente per il dono ricevuto. Ha detto che assomigliamo ai ragazzi di una volta, che siamo gentili... perché abbiamo avuto la pazienza di ascoltarla, perché le procureremo il mangime per le galline e un pacco di minestrina... Dio mio, dovrebbe essere normalità questa, nulla costa tutelare le persone rare e preziose come lei, che chiedono solamente di non essere dimenticate... e dovrebbe esserci la fila per godersi la fortuna di fare due chiacchiere con Emma... sì, sono felice, e l'amaro in bocca passerà prima o poi..." "In effetti il tè non era un granché, d'altronde ho aggiunto poco zucchero perché stava finendo anche quello...", impagabile, fantastico amico mio, come l'aveva liberata dissipò in un attimo la nube di malinconica rabbia che mi avvolgeva, fra l'altro parzialmente ingiustificata visto che in realtà nessuno dei suoi conoscenti si era dimenticato di quella delicata, anziana signora; sorrisi di cuore, continuai a farlo ogni tanto per conto mio. Giunti di fronte all'antica pieve campestre, dopo aver camminato per oltre un'ora, intravedemmo le poche casette del minuscolo borgo; da ogni comignolo partiva una pennellata grigiastra che presto si sfumava e perdeva nell'aria tersa. La strada principale, come avevo supposto, era stata ripulita in modo che gli abitanti non rimanessero isolati e in caso di bisogno potessero recarsi se non nel paese più vicino, quello dai cui pressi stavamo provenendo noi, almeno in quello più importante, distante una quindicina di chilometri. Arrivammo alla trattoria; fu un sollievo scoprire che era aperta, con un paio di piccole jeep parcheggiate vicino. Ci scrollammo di dosso la neve e il ghiaccio che si era formato su scarponi, giacche e berrette, ed entrammo, io già col foglio di Emma in mano. Chiesi a quello che reputai essere il proprietario dove si trovasse il telefono, ma il mio atteggiamento nervoso e pensieroso - stavo in effetti ragionando su cosa dire allo sconosciuto che avrei contattato, e contemporaneamente su come agire se non fosse stato in casa - probabilmente lo allarmò perché alla risposta fece precedere una domanda: "E' successo un incidente?" "Come? No, mi scusi, devo telefonare ai parenti della signora che abita da sola nel casolare vicino al fiume, a qualche chilometro da qui..." "Stai parlando della vecchia Emma? Ha dei problemi?" "E' senza provviste" dissi, "probabilmente a causa della neve non sono riusciti a raggiungerla..." "Ho capito, non preoccupatevi, ora li contatto io, che li conosco bene. Nel frattempo ditemi di cosa ha bisogno, così appena tornerà mio figlio, al massimo fra un paio di ore, andrò da lei col trattore. Volete scaldarvi con qualcosa da bere?" "Certo..." intervenne il mio amico mirando un rustico bottiglione trasparente quasi pieno di una densa bevanda rossastra, "quello zabaione andrebbe benissimo!"
Era buio quando arrivammo all'auto, la temperatura di sicuro neppure si avvicinava allo zero e in cielo le prime luminosissime stelle avvertivano che se non si fosse alzato il vento nei giorni successivi sarebbe stato possibile compiere tranquille escursioni su neve e ghiaccio anche a quote più elevate.
Fu l'ultimo inverno che Emma passò nel suo casolare isolato: venne trasferita in un bell'ospizio per anziani dove qualcuno l'avrebbe seguita da vicino - anche se al momento lei riusciva, pur con qualche aiuto, a badare senza problemi a se stessa - dove avrebbe chiacchierato con altre persone della sua età, giocato a carte - anche se lei conosceva solo i "solitari" - dove soprattutto avrebbe atteso in compagnia, spero ricevendo ugualmente le visite serali dei cari perduti che le raccomandavano di non avere fretta a raggiungerli. Posso immaginare la sorte delle sue galline, dei conigli, ho preferito però non chiedere notizie su quella toccata ai gatti, alla vecchia Briciola.
Gianluca Carboni
(1) nel dialetto romagnolo il termine "gagino" significa "ragazzo dai capelli rossicci, chiari". (2) nel dialetto romagnolo la frase "c vliva un pocc ad Resistenza per ste burdel" significa "ci voleva un po' di Resistenza per questo ragazzo" e la utilizzano spesso gli anziani per riprendere bonariamente un giovane che, svogliato e distratto, non ha appetito o scarta una parte consistente di cibo. |